Atwar Bahjat: se la libertà significa morte

Mi chiedevo con quale criterio scegliere la prima personalità da analizzare per iniziare questa rubrica dedicata ai giornalisti uccisi, incarcerati e rapiti nel mondo e alla libertà di stampa. Mi chiedevo quale fosse la discriminante giusta per dare vita ad un elenco di senso compiuto. Alla fine credo che non seguirò un ordine prestabilito, perché dare risalto a certe particolari nazionalità prima di altre mi sembra come dimenticarsi che ogni storia è grave allo stesso modo e che non esistono vittime che «contano di più» di altre; seguire un ordine di tipologia di avvenimento (rapimento, uccisione, scomparsa) mi sembra come dare più importanza alla morte dei singoli, piuttosto che al loro lavoro e alla vita che hanno dedicato ad esso; e infine l’ordine cronologico mi sembra un ordine meccanico e accademico che poco si avvicina al tipo di taglio che mi piacerebbe dare.
PIMG-20160323-WA0000er questo motivo cercherò di considerare le storie di giornalisti di paesi e testate diverse, che si sono trovati all’interno di conflitti in paesi diversi, per diverse motivazioni e in diversi periodi storici, proprio per sottolineare che, nonostante tutte queste diversità, la cosa importante è ciò che li accomuna: il desiderio di informazione libera, di verità e in fondo anche quello di svolgere il proprio lavoro senza rischi per la vita. Non dovrebbe essere questo un requisito minimo per tutti?
Dal 1992 ad oggi, secondo il Committee to Protect Journalists, solo i giornalisti uccisi sono stati 783: tra questi Atwar Bahjat, giornalista per conto di Al Jazeera e Al Arabiya, uccisa in Iraq il 22 febbraio 2006, a soli 29 anni.

Atwar Bahjat era una giornalista irachena che auspicava per il suo paese un futuro migliore e che per contribuire a renderlo tale riteneva suo doveroso compito quello di osservare i fatti, i cambiamenti e gli avvenimenti della sua terra per poterli raccontare alle persone. «Il mio paese sta crollando e si sta spezzando» diceva «ed è mio compito guardare». Non «rimanere a guardare» impassibile e impotente, ma utilizzare le sue armi, la telecamera e la voce, per guardare e raccontare. Il suo coraggio e la sua determinazione sono probabilmente le caratteristiche che hanno spinto i suoi assassini ad agire.
Lo scenario è quello dell’Iraq degli anni 2000. Dopo l’invasione americana, Atwar Bahjat comincia a lavorare per Al Jazeera, occupandosi di cultura prima e di politica poi. Sempre più nota sia nel mondo dei media, sia dalla popolazione, soprattutto grazie ad alcuni importanti reportage di guerra, divenne un volto molto conosciuto della televisione, soprattutto dopo essere diventata una giornalista televisiva per Al Arabiya.
Come si legge in un articolo del World Press Freedom, Atwar Bahjat raccontava alle persone le storie di tutti i giorni, era un volto conosciuto e chi la guardava le credeva, soprattutto perché sapeva che lei avrebbe detto la verità. Questa fiducia che si era guadagnata si è rivelata poi pericolosa, perché una voce che sa arrivare alle persone fa paura a quelli che invece alle persone vorrebbero negare il diritto di conoscere.AtwarBahjat-795717
Nata da madre sciita e padre sunnita, i suoi reportage non parteggiavano mai per un gruppo politico e non supportavano nessun particolare fronte: il suo era sempre un lavoro oggettivo, lei stessa ammetteva «Io sono per l’Iraq, non per un particolare gruppo politico o religioso». Un Iraq unito era quello che infatti auspicava, ed era esattamente quello che le persone che combattevano tra di loro non volevano ottenere: il risultato è che Atwar si fece dei nemici da entrambe le parti.
Quando il 22 febbraio 2006 la moschea sunnita di Al Askari venne colpita da una bomba dando vita a nuove ondate di violenze tra sciiti e sunniti, Atwar Bahjat si recò immediatamente sul luogo insieme alla sua crew composta dal cameraman Khaled Mahmoud al-Falahi e dall’ingegnere Adnan Khairallah. Secondo le testimonianze, tre uomini sunniti, infastiditi dal lavoro della crew, li presero di mira e li rapirono. Atwar fu stuprata e uccisa e il suo corpo venne ritrovato insieme a quelli della sua crew il giorno dopo. Perfino durante il suo funerale intervennero degli uomini armati sparando alle persone che stavano onorando la morte di una donna coraggiosa.
Lavorare in zone di guerra è sempre pericoloso, alcuni muoiono per incidenti o per attacchi improvvisi dove non erano loro gli obbiettivi, altri vengono uccisi come Atwar. E stuprare e uccidere una donna non è mai un incidente. Soltanto nel 2009 vennero presi gli assassini di Atwar, uno dei quali fu condannato a morte nel 2011, nonostante la critica di Amnesty International. Ad Atwar Bahjat vennero poi riconosciuti dei premi tra cui l’International Press Freedom Award da parte del Committee to Protect Journalists. Nonostante questo, come si legge nell’articolo pubblicato nel febbraio 2015 da Ivana Brehas, n2002872263on mancano alcune polemiche. Brehas conosce la storia di Atwar attraverso l’opera di cui parla nell’articolo, intitolata Every Man in This Village Is a Liar scritto da Megan Stack, ed è proprio qui che individua il primo problema: prima di leggere il libro mai aveva sentito la storia di Atwar Bahjat. Nessun giornale, nessuna notizia, nessun articolo, nessuna reazione da parte del mondo occidentale, che se avesse assistito alla morte di una giornalista «bianca» o «occidentale» «si sarebbe infuriato». Questo conferma il mio timore iniziale, e cioè che esistono ancora delle «gerarchie di vittime»: la tua morte vale tanto quanto vale il luogo in cui sei nato. Questa riflessione non è intesa a creare polemiche, io stessa ammetto che soltanto scavando e cercando notizie sull’argomento sono arrivata alla storia di Atwar.
È una riflessione volta appunto a far riflettere, perché accade ancora oggi che si creino hashtag per le vittime di Parigi dopo l’attentato di Charlie Hebdo, ma nessuno spazio viene dedicato agli altri attacchi in giro per il mondo, come quello ad Ankara, in Turchia, per citare il più recente. È forse anche un po’ questo lo scopo che vorrei dare alla rubrica, cercare di dare uno spazio e di raccontare le storie di quei giornalisti che hanno dato la loro vita o la loro libertà per la nostra informazione, e che spesso vengono dimenticati e ridotti ad un numero, parte di mere statistiche. Che la storia di Atwar Bahjat sia un modo per ricordare tutti gli 89 giornalisti, fotoreporter e tecnici assassinati in Iraq dal 2003 al 2009, gli altri 50 morti durante il loro lavoro e tutte le vittime di quella guerra.