Femminicidio: una legge ad hoc è assurda

Premessa (8/6/16): questo blog ha lo stesso limite dei quotidiani, gli articoli vengono scritti e inseriti il giorno prima della loro pubblicazione, che avviene automaticamente il giorno successivo. Mi permetto di aggiungere questa piccola premessa perché, tra l’inserimento e la pubblicazione del pezzo, nel frattempo un’altra donna molto probabilmente è stata uccisa dall’ex fidanzato. Sono consapevole di prendere posizioni abbastanza difficili da accettare in questo articolo, ma ho deciso di pubblicarlo comunque perché mi fido del giudizio dei miei lettori e so che capiranno che non intendo sminuire la gravità del fenomeno, bensì evidenziare come quella proposta a gran voce non sia una possibile soluzione.

(tb)

«Femminicidio» è la moda della comunicazione delle ultime settimane: ogniqualvolta una donna viene uccisa, ecco l’uso e l’abuso di questo termine così brutto e cacofonico. Si parla di «Emergenza femminicidio», di campagne per fermare l’ondata di misoginia, di appelli per una legge che preveda l’ergastolo ostativo per chi si macchia dell’omicidio di una donna. Nessuno che si renda conto della follia che stiamo generando, che comprenda il maschilismo sotteso, nascosto fra le parole che incautamente pronunciamo.

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Chi scrive rabbrividisce ancora a pensare alla terribile morte di Sara, la ragazza uccisa e bruciata dall’ex fidanzato solo pochi giorni fa: una fine orribile, per mano di un individuo il cui comportamento meriterebbe epiteti che ci vergogniamo a riportare in questo spazio, usualmente calmo ed educato. Purtroppo però, se indubbiamente il problema esiste, è altrettanto certo che la soluzione non è così intuitiva: non si può banalizzare un discorso, magari sull’onda della comprensibile emotività, che invece si rivela molto complesso.
L’avvocato Giulia Bongiorno, auspicando una «Legge ad hoc per tutelare le donne», non fa altro che cadere in questa macroscopica trappola: un intervento legislativo di questo tipo non farebbe altro che evidenziare e acuire una gerarchia fra i generi. Pur non volendo dar ragione a Camillo Langone, con cui abbiamo davvero poco da spartire, è indubbio che tutelare un sesso più dell’altro può significare soltanto due cose: 1. la donna è più debole dell’uomo e per questo va maggiormente protetta; 2. la donna è più importante dell’uomo e per questo bisogna punire più severamente chi si macchia di un delitto che abbia una vittima di sesso femminile. In entrambi i casi il ragionamento non sta in piedi: donne e uomini non sono certo uguali — chi afferma ciò semplicemente o non vede o non intende — ma devono avere uguale dignità e uguali diritti. Una pena più dura per chi uccide una Femminicidiodonna è esattamente il contrario di quanto abbiamo appena affermato, ed è sintomo di una società che vuole risolvere i problemi con la repressione, metodo che storicamente non ha mai funzionato: se la pena di morte negli Stati Uniti non ha fermato gli omicidi, se il fine pena mai non ha impedito che si compiessero le peggiori nefandezze, come può una semplice aggravante fermare i cosiddetti femminicidi? Saremmo anche disposti, seppur con riluttanza, ad ammettere una legge siffatta, se davvero azzerasse i delitti ai danni delle donne; ma questo, come abbiamo visto, è davvero improbabile: anziché salvare capra e cavolo (leggesi vita delle donne e uguaglianza tra i generi) li perderemmo entrambi.
La proposta di Giulia Bongiorno, che è stata condivisa anche da politici di caratura più o meno elevata, è il sintomo di una società che intende utilizzare la pena come risoluzione di uno shock sociale, ipotesi assai arcaica e — se non si stesse parlando di tragedie — quasi buffa. Ci sono molte scuole di pensiero ugualmente valide a proposito del significato della pena: la prevenzione, la rieducazione, la temporanea o definitiva eliminazione del soggetto colpevole dalla società (attraverso la detenzione o l’uccisione) al fine di impedire il reiterarsi del delitto e quindi per garantire agli altri cittadini un certo grado di sicurezza. Ma nessuna di queste opinioni riguarda il bisogno di giustizia avvertito dalla società né la necessità di trovare un colpevole e fargliela pagare. Qui si entra nella legge primitiva e non nel diritto positivo moderno.
Iniziamo a parlare di omicidi, ugualmente terribili e ugualmente atroci sia se la vittima è un uomo sia se è una donna. Cominciamo a condannare l’atto indipendentemente da chi è la vittima. È stato peggiore, per esempio, l’omicidio di Aldo Moro a opera delle Brigate Rosse o l’uccisione della giornalista russa Anna Politkovskaja? La risposta esatta è: sono entrambi ugualmente terribili. Non ci sono morti di serie A e morti di serie B: l’omicidio, l’ergersi a padrone della vita e della morte di un’altra persona, è uno dei massimi gradi di sopraffazione del prossimo, e questo non diventa più grave se a essere sopraffatta è una donna.