Ode al cenote, gioiello del Messico

Nelle lontane terre del Messico vivono meraviglie nascoste di cui pochi sono a conoscenza. Appena al di sotto della crosta protettiva di Gaia: la nostra terra scopre pezzi di anima e, vulnerabile, si espone al nostro tocco imbrancato.
Senza contare il mare, che rimane re e protagonista, esiste, nella sua silenziosa modestia, un grandioso miracolo naturale.
Si chiama cenote.
Il nome non ispira grazia o maestosità. Potenza o lusso.
Cenote… Suona come qualcosa di immenso. Secolare. Il cenote è così. E ce ne sono tanti in Messico.
Nessuno lo sa, e questa cosa mi piace. Perché non tutti dovrebbero sapere di loro, o perderebbero la quella unicità silenziosa.
Quella magia fragile di cui sono composti e imbevuti. Che poi, in silenzio non sta mai, il cenote.
Il cenote è vivo.
Piu vivo di voi e me.
È l’amante di madre natura.
Quando ci entri, il tempo rallenta quasi fino a fermarsi, perché per lui i secoli sono anni, e i mesi giorni.
E tu non sei altro che parte della sua natura.
Di tutta la terra.
Attraverso pericolanti scalini mangiati dall’umidità e dalle frustate del sole, si scende ed entra nel suo ventre cristallino.
Un limbo tra il palpabile e l’onirico.
Una grotta scavata dal tempo e dalla mano artistica di qualche dio, ripiena di un’acqua che acqua non è.
È anima trasparente e liquida. Fluido fertile, pathos fossilizzato. Volano gli anni e salgono o pendono dagli affreschi rocciosi di pietra levigata o tagliente come stalattiti e stalagmiti provviste di vita propria.
Anime mescolate e dense, fresche in rapporto al caldo caraibico che fa ribollire l’aria esterna.
Questa acqua è dolce, è carezza, é fantasma dei secoli.
È talmente limpida da permetterti di vedere il fondale distante anche 40 o 50 metri da te.
Tu, che galleggi sul filo delicato della superficie e ti ritrovi a tremare in un misto tra vertigine ed euforia.
Più cristallina dell’aria, ti lascia scorgere gli angoli più oscuri e bui. Dove la pressione della profondità arriverebbe a comprimerti il cuore.
Invece, il petto ti esplode.
Perché lo senti, ti entra dentro e ti ribalta il vissuto, esponendoti a una connessione con la natura tanto primordiale quanto eterna.
Nei secoli dei secoli.
È come tornare all’istante della creazione e fare un fermo immagine per poterlo osservare, e nutrirsene, ogni qual volta sentiamo di non appartenere a nulla. Di essere soli, sbagliati.
E l’acqua, ah l’acqua.
Essenza senza limiti e confini; trasmette qualcosa come una purificazione divina, funge da lente di ingrandimento. E tu ti senti così piccolo. Figlio ritrovato da una madre universale.
Così insignificante e ammaliato da perdere la cognizione del respiro.
E allora tu e il cenote vi cullate, dimenticando l’ossigeno, perché nel fermarsi del tempo non serve più respirare.
Un letto secolare, un paradiso terreste dimenticato da ogni religione.
Perché migliore di ogni paradiso.
Cenote è un sentimento.
Una persona.
Animale.
Pianta.
Terra.
Carne.
Quando morirò, desidero che le mie ceneri siano sparse nelle tiepide acqua del cenote.
Perché è l’unico luogo dove vorrei tornare, per vivere in eterno. Con lui, come lui.
Limpido, muto. Maestoso.
Eterno.