Loro i Casamonica, noi gli italiani

In una Roma invasa dai picciotti marsigliesi, dalle tre B (Maffeo Bellicini, Jacques Berenguer, Albert Bergamelli) che affondavano il proiettile nello champagne e che, tra sangue e delitti, sapevano anche odorar di filosofia, nell’epoca in cui all’oscuramento dello Stivale e della Città Eterna si offrivano gli estremisti neri, gli esponenti dei servizi segreti, i terroristi dei Nuclei Armati Proletari, loro facevano per la prima volta capolino, trasportando con sé roulotte e cavalli, già predisposti alla malavita organizzata, già disposti a scalar la montagna.

La Banda della Magnana è stata la scuola professionale, Di Silvio, Spada, Di Rocco, Bevilacqua, Spinelli e De Rosa le famiglie affiliate e accompagnatrici, l’usura, il racket e lo spaccio i prediletti divertimenti:loro sono i Casamonica, il clan abruzzese di origine sinti, che per il dominio celebre, illegittimo, violento e indiscriminato su Romanina, Anagnina, Porta Furba, Tuscolano, Pinaceto, Frascati e Monte Compatri ha fatto spettacolo, triste ludibrio della sobria e modesta onestà, intrattenimento spietato della volgare televisione italiana, come la memorabile e fin troppo poco ammonita intervista a Vera Casamonica, che Porta a Porta, lo storico rotocalco della rete ammiraglia, fece precedere al successivo confronto del conduttore, Bruno Vespa, con Salvo Riina.

Mentre le note attività di demolizione colpiscono finalmente otto delle ville abusivamente occupate dal clan familiare, la triste e ventennale storia di timbri, carte bollate e rimandi, sempre insufficienti, sempre intempestivi, sempre ignorati, impone al medio cittadino italiano l’obbligo di perseguitare col dubbio le azioni dei competenti, efficienti ed integerrimi amministratori di prima che, nell’indifendibile e silente omertà, hanno creato per i romani l’humus dello scontro, della prepotenza, dell’incapacità di ascolto, la forza occulta che oggi tramortisce tutti, zingari e perbenisti, nomadi e finemente sedentari, una vera e propria isteria collettiva, simbolo di una capitale cafona, insolente, ingrata, che unicamente del crimine ha fatto fonte di vanto e visibilità, quasi a divenir esso stesso un totem, un ancestrale e genetico animale che vive dentro di noi, inestinguibile, implacabile, semplicemente descrivibile nelle sue altisonanti sfumature, sommessamente venerabile.

Suburra e Gomorra, non a caso la prima forgiata dalla presenza del maestro, Luciano Casamonica, e poi Il Mondo di Mezzo, Mafia Capitale, Romanzo Criminale, costituiscono vocaboli e figure appartenenti al linguaggio vivo e quotidiano di ogni cittadino italiano, ma non a volerne accentuare il distacco, il doveroso e necessario rifiuto che si dispiega alla mente rigorosa e responsabile nei confronti delle realtà atroce, deformata e ripugnante, quanto il sottaciuto compiacimento, lo sguardo attonito ma gaudente, la consapevolezza di trovar in sé stessi, nelle minute ma terribili offese che si concedono all’altro e allo Stato, il germe dilapidatore del boss che distrugge.
Loro i Casamonica, storico clan, estraneo alle infiltrazioni, curante il sangue; noi, esattamente come loro, dall’altra parte dello steccato, vittime ma complici, gli Italiani.