Gli anglicismi, un pericolo per la lingua italiana?

Dal volgare fiorentino di Dante, padre della lingua italiana, allo «sciacquar i panni nell’Arno» di Manzoni fino ai neologismi dei futuristi, il nostro linguaggio, parlato e non, ha subito una vera e propria evoluzione. Cosa rimanga ad oggi di questo gergo antico è difficile da dirsi: tra congiuntivi sempre meno comuni e anglicismi imperanti, in ogni ambito della comunicazione sembrano essersi perse le antiche vesti della lingua italiana. 

«Ciò che turba oggi molti italiani, i numerosi anglicismi, è più un problema per la loro cultura che per la loro lingua», scriveva nel 2016 Vittorio Coletti, membro dell’Accademia della Crusca. L’intervento del prof. Coletti mette in guardia da quelli che possono a tutti gli effetti essere considerati i rischi di un’eccessiva anglicizzazione della lingua. Non passa minuto senza che alle nostre orecchie non giungano parole quali step o upgrade, come se le loro rispettive traduzioni non fossero altrettanto degne di essere pronunciate e scritte. Espressioni come «mission aziendale» portano con sé un’aria di nuovo, grintoso e frizzante, nulla a che vedere con il solito e ormai anacronistico «obiettivo aziendale», inevitabilmente finito in disuso.

In questa corsa all’ultimo anglicismo sembra riflettersi una sorta di senso di inferiorità nei confronti di una realtà in perenne cambiamento e con cui, inutile dirlo, l’Italia non riesce a stare al passo. Inerti e demotivati cerchiamo di salvare almeno la facciata a suon di jobs act e ministeri del welfare senza che nessuno dei due funzioni davvero. Oramai nemmeno i più diffusi mezzi di comunicazione sembrano sprecarsi alla ricerca di sostitutivi italiani ai più frequenti corrispettivi inglesi. Al contrario lanciandosi in pseudo-esercizi di stile propongono curiose coniugazioni di verbi inglesi nei tempi e nei modi di quella che un tempo fu la lingua di Dante, dando così vita a termini come «upgradare», ritenuto forse più cool dell’italiano «aggiornare».

Sia ben chiaro che il problema non è l’internazionalizzazione della lingua, che di per sé potrebbe anche denotare una favorevole apertura della cultura italiana verso l’esterno, quanto piuttosto altri aspetti che sembrano accompagnare questo fenomeno. Nel momento in cui decidiamo di utilizzare una parola piuttosto che un’altra, la nostra scelta viene dettata da gusti e preferenze che ci fanno propendere per quella che riteniamo essere l’opzione più adatta e che meglio ci rispecchia. 

Risulta a questo punto evidente come il preferire un termine anglofono al suo equivalente italiano non possa essere atteggiamento da sopravvalutare. Quest’ultimo infatti altro non è che un drammatico esempio della mancata identificazione in quella che dovrebbe essere la nostra lingua  e la nostra cultura. Riportare in voga la lingua italiana, seppur con le necessarie evoluzioni, non significa in alcun modo dar sfogo a malsane tendenze nazionaliste, purtroppo risorte in altri ambiti della vita collettiva, al contrario rappresenta un’occasione per mettere a tacere quel senso di inferiorità che sembriamo provare. In fin dei conti, come giustamente argomentava Vittorio Coletti, se a morire è la lingua italiana, a sopperire è la cultura stessa e dall’inattività di quest’ultima non possono di certo sorgere giorni migliori.