Perché la pagina «Profili di persone detenute» deve chiudere

Alla fantasia, spesso beffarda, di fondatori e amministratori di pagine Facebook pare non esserci proprio limite. Ormai siamo oltre gli screenshot di conversazioni (reali?) di giovani in preda a delusioni amorose, post ripresi da gruppi deliranti di donne prive di minime nozioni sulla sessualità, contenuti con riferimenti maschilisti, spesso intaccanti la dignità delle donne a cui si riferiscono. Perché si è oltrepassato un certo confine? Bene o male, precedentemente, veniva protetta la privacy dei protagonisti di questi link, oscurando il loro nome e il loro volto, non permettendo dunque agli utenti di ricondurre quegli scritti o quelle azioni a una persona realmente esistente. Tutto ciò è stato accantonato da una pagina che si è guadagnata più di 30mila like, quindi un pubblico discretamente vasto: «Profili di persone detenute».

Evidentemente, un progetto con questo nome non lascia presagire la tutela della riservatezza, anzi, fa capire che il suo scopo è proprio l’opposto: spiattellare ai quattro venti l’identità di colpevoli di reati o presunti tali, rilanciando immagini e pensieri da loro postati su Facebook.
Scorrendo la bacheca, ci si imbatte in una sorta di casellario giudiziale accessibile a chiunque. Troviamo il profilo di C., arrestato insieme alla fidanzata per omicidio e soppressione di cadavere; di M., maestra ai domiciliari per maltrattamenti ai danni dei suoi piccoli alunni; di G., condannato per prostituzione minorile, violenza sessuale e cessione di stupefacenti; di J., anch’egli ai domiciliari come l’insegnante, ma per omicidio stradale.; di P., arrestato per violenza sessuale. Vengono riportati anche individui coinvolti in casi di cronaca molto noti, come il recente stupro denunciato da una ragazza in provincia di Napoli, avvenuto- sostiene lei- in un ascensore guasto di una stazione ferroviaria. Gli account, coi volti in bella vista, di due tra i giovani accusati sono stati pubblicati dai gestori della pagina ben due volte: la prima, alla notizia del loro ingresso in galera; la seconda quando, ritenuta non credibile la versione della sedicente vittima, densa di incongruenze e povera di riscontri, essi sono stati rimessi in libertà. Questa modalità sottende anche la derisione nei confronti della decisione del tribunale.

Poniamo l’accento su un aspetto che emerge soprattutto da quest’ultima vicenda e che deve essere tutt’altro che sottovalutato. In molti casi, i mostri che vengono esposti al disprezzo degli utenti sono semplicemente oggetto di indagine oppure imputati in procedimenti penali: ancora non è stata accertata la loro colpevolezza, fino a prova contraria restano degli innocenti. Eppure, chi posta i loro account per generare reazioni di bullismo verbale non si avvale del beneficio del dubbio, al contrario, pare emettere sentenze senza possibilità d’appello. Queste persone vengono, infatti, gettate in pasto a commentatori che probabilmente nemmeno si documentano sull’iter processuale a cui sono sottoposti i destinatari del loro velenoso scherno, naviganti sul web a cui non importa se, magari, tempo dopo quegli uomini e donne che sbeffeggiano si riveleranno essere estranei ai fatti a loro contestati.

Questo passatempo giustizialista è tanto becero quanto pericoloso. In primis, come abbiamo visto, perché potrebbe compromettere irreparabilmente la reputazione di chi, ingiustamente, è stato coinvolto in un processo. La riabilitazione risulta già di per sé un cammino tortuoso, figuriamoci se si è stati esposti in questa maniera così crudele! In secundis, ammettiamo si tratti realmente di condannati in via definitiva, rei di aver commesso crimini inenarrabili. La pena a loro comminata, generalmente la privazione della libertà,  non esprime un intento vendicativo da parte dello Stato, ma rappresenta un percorso di riflessione, espiazione e rinnovamento finalizzato al reinserimento nella società. Questo iter è particolarmente insidioso, specialmente a causa delle condizioni detentive attuali che, in larga parte, non permettono un progresso personale, ma spingono a un rafforzamento della devianza, incrementando il rischio di recidiva. Se a ciò si aggiunge una spietata gogna su Internet, la possibilità che il reo si redima e creda di possedere la capacità e l’opportunità di cambiare viene ulteriormente menomata: lo stigma è insopportabile.

Per queste ragioni, la pagina deve chiudere i battenti: la dignità degli esseri umani, pur se probabili o certi criminali, non vale un pugno di like. Inoltre, in un’ottica utilitaristica, il suo modus operandi è tutt’altro rispetto a ciò di cui abbiamo bisogno per ridurre l’incidenza dei reati.