Il diritto alla mobilità minato: il passaporto debole

Per un cittadino del Vecchio Continente la possibilità che si trovi obbligato a procurarsi un passaporto per poter raggiungere la meta delle ambite vacanze è piuttosto limitata e, in ogni caso, la trafila per ottenerne uno non richiederebbe un dispendio di risorse eccessivo. Se però ad avere la stessa pretesa fossero cittadini di Stati come la Libia, la Somalia o la Siria, la questione si complicherebbe inevitabilmente. 

Secondo quanto riportato dall’Henley Passport Index 2019, classifica mondiale dei passaporti basata sul numero di destinazioni che i cittadini di uno Stato possono raggiungere senza visto, la maggior parte dei Paesi africani e del Medio Oriente presenta norme particolarmente restrittive in materia di diritto alla mobilità impedendo di fatto alla popolazione locale di uscire dai confini nazionali senza dover rischiare la vita o indebitarsi. Per chi nasce oggi in uno dei Paesi detentori dei cosiddetti «passaporti deboli», le opportunità di viaggiare assumono infatti caratteri ben distanti da quelli di chi ha avuto il privilegio di nascere nel posto giusto e così le possibilità di costruirsi un futuro migliore fuori dal Paese natale si riducono significativamente di fronte ad un passaporto che è considerato carta straccia. 

In un momento storico in cui le politiche di accoglienza di migranti e rifugiati sembrano essere ridotte ad allarmanti dichiarazioni su un’invasione che non c’è, l’attuale gerarchia dei passaporti rappresenta dunque uno degli ostacoli principali e meno considerati dai governi europei nel dibattito relativo alla gestione dei flussi migratori. Così, mentre i governi europei trasformano il continente in una fortezza al ritmo di incessanti campagne anti-migratorie e porti chiusi, la maggior parte degli sforzi messi in atto per gestire l’attuale crisi dei migranti sono destinati a rimanere vani. Riconoscere nelle disumane condizioni in cui i più sono costretti ad affrontare il Mediterraneo nelle mani di trafficanti il segnale di una lotta che, prima ancora forse di essere per la sopravvivenza, vuole rivendicare il diritto alla mobilità di chi del suo passaporto se ne fa ben poco, è ora più che mai necessario.

È evidente come ciò significhi innanzitutto invertire quello che fino ad oggi è stato l’approccio della politica dell’«aiutiamoli a casa loro» tanto criticata e al tempo stesso perseguita da diversi Stati europei e di cui l’accordo del 2017 tra Italia e Libia firmato dall’allora ministro Minniti offre un chiaro esempio. Il nuovo criterio da adottare dovrà necessariamente lasciarsi alle spalle la convinzione che la gestione dei migranti possa ridursi ad un’egoistica chiusura dei confini nazionali e sostituire a questa l’idea che la migrazione sia solo una delle possibilità di viaggio. 

Attraverso l’abbattimento dei vincoli burocratici ed economici che oggi impediscono ai cittadini africani di ottenere un visto per fare esperienze all’estero, siano queste di lavoro, di studio o di semplice svago, si costruirebbe una nuova mappa delle migrazioni sottraendo il controllo delle rette a chi oggi le gestisce sulla pelle degli altri. Interrogarsi sulle misure da adottare per fermare gli sbarchi necessita una riflessione più profonda sulle motivazioni che fanno sì che oggi il viaggio rappresenti un’esperienza positiva per pochi fortunati e un’avventura infernale per chi, nonostante la forza di volontà, ha un «passaporto debole».