Si dovrebbe riconoscere il diritto al diletto

Milioni di italiani che si trovano nella condizione di povertà assoluta o anche solo relativa affrontano molteplici ostacoli quotidiani per potersi cibare, prendere cura di sé, affidarsi a un medico, non rimanere indietro con le bollette di luce e gas.
A queste insidiose difficoltà facciamo riferimento quando riflettiamo sulla situazione di questi nostri connazionali. Certamente, non potrebbe essere che così. Sono i bisogni essenziali i primi a essere presi in considerazione dagli osservatori e dai governanti e, senza dubbio, quelli che, se non vengono soddisfatti, maggiormente pesano nella vita di una persona.

Così, l’indigente, rinunciando a questo e quello, tagliando di qua e di là, privandosi piano piano di tutto ciò che può apparire come superfluo in uno stato di ristrettezza economica, si trasforma in un umano con funzioni primarie o poco più: mangia, di solito poco e/o male, beve, dorme. I più intraprendenti, fortunati o, semplicemente, disposti ad accettare anche la paga più inconsistente, lavoricchiano. Tutto il resto, spesso, si annulla. Lasciamo da parte le conseguenze più serie dello status di povero: non parliamo di visite mediche ed esami non eseguiti, di perdita della propria abitazione, di forniture interrotte. Osserviamo, per una volta, fenomeni che, purtroppo, si tende a sottovalutare, a non ritenere un disagio poi così incisivo.

Le donne in molti casi non badano più al loro aspetto fisico: i capelli si fanno arruffati, la tinta accantonata lascia spazio alla ricrescita, il numero dell’estetista non viene più digitato. Gli uomini anch’essi si trascurano, non radono più la barba quotidianamente come quando dovevano presentarsi in ufficio o in officina, non frequentano più la palestra dove si tenevano in forma. Possono sembrare segnali banali, al contrario si rivelano indice di decadimento dell’essere umano, della stima che questo ha di sé e del suo ruolo nella società.

Il povero, a cui sono rimasti pochi spiccioli, può pensare solo a che cosa mettere in tavola la sera, a come riparare quel vecchio veicolo che ogni due settimane lo lascia a piedi, a come resistere ancora un po’ con quella dolorosissima carie. L’estratto conto lo condanna a questo e anche gli occhi giudicanti dei famigliari, dei vicini di casa. Egli non può permettersi di sentire necessità che non siano primarie. Desiderare un tuffo in mare se esso dista più di una camminata, un massaggio rilassante, una partita allo stadio, un breve viaggio rigenerante è severamente, moralmente proibito. Se si confida a qualcuno che si soffoca in quella vita, perché ogni piacere è stato soppresso, la critica maligna giunge repentina. Perché l’umile deve occuparsi solo di non morire di stenti, ogni frivolezza è interdetta, ogni boccata d’aria è una vergogna.

Lanciamo una provocazione: si dovrebbe riconoscere il diritto al diletto, garantito all’intera popolazione. Occorre capire che i disoccupati e gli sfruttati, proprio come chi si reca ogni giorno al lavoro, hanno bisogno di svagarsi, distrarsi, farsi belli. È proprio vero che non di solo pane vive l’uomo. Senza un buon libro, una messa in piega dal parrucchiere, due giorni di villeggiatura, una nuotata in piscina, la nostra anima si dispera. Chissà quanti problemi psicologici derivano dalla mancanza di divertimento, di stimoli positivi, di una sana attenzione verso se stessi!
Perciò, se non sguazzate nella ricchezza, non provate l’onta di voler spendere qualche euro per una gratificazione. È importante tanto quanto acquistare un chilo di pane.