Quegli schiaffi non presi

Signore e Signori, nel 2019 se un bambino si comporta in modo ritenuto sbagliato, la spiegazione che ancora qualcuno riesce a dare è proprio quella dei mancati schiaffi, non ricevuti a casa. Come se, non solo facessero essi parte dell’educazione, ma ne fossero anzi l’elemento cardine.
Senza fare nomi o luoghi, nel desiderio di problematizzare il comportamento e non di accanirsi contro le persone, il fatto in questione è pressapoco questo.

Un autista si trova una mattina, per cause non dipendenti da lui, a ritardare di circa venti minuti. Venti minuti, nella frenesia della nostra società, possono essere davvero tanti. Anche l’autista stesso forse è innervosito dalla questione e cerca di rimediare accelerando un po’ più del solito. Arriva prima a una fermata e poi a un’altra troppo lontane dal luogo del rallentamento per conoscere la causa del ritardo. Alla prima delle due sale un ragazzino, così definito dall’autista, che gli fa notare il ritardo borbottando qualcosa come «Con calma, eh!». L’autista non si trattiene e chiede al ragazzino, già arrivato a metà pullman, di tornare indietro perché vuole parlare con lui del perché e soprattutto gli fa notare come prima di fare certi commenti si potrebbero chiedere spiegazioni. Il ragazzino è abbastanza imbarazzato, forse si scusa e torna al suo posto. Il conducente dopo poco sembra ricordarsi qualcosa e lo richiama lì, vuole vedere il suo abbonamento, pare. E, dice, vuol dare un nome a questo genio a cui andrebbe eretto un monumento. Bene, l’abbonamento è a posto, finalmente il ragazzino può tornare tra i compagni, che forse sono dalla sua e lo rincuorano, un po’ ridendo e un po’ asserendo su quanto sia stato eccessivo il comportamento dell’autista. È in quel momento che arriva la magica frase, rivolta un po’ all’aria un po’ ad una passeggera seduta ai primi posti: «Questi sono i risultati degli schiaffi non presi!». Non bastasse, alla seconda fermata citata prima, sale una ragazza che chiede indirettamente come sia possibile fare tanto ritardo, quale giro possa aver fatto per arrivare venti minuti dopo. La scena si ripete quasi da copione e l’autista fa notare di nuovo come si potrebbero chiedere informazioni prima di sparare a vuoto. Poi spiega velocemente il motivo del ritardo e la ragazza si scusa, si meraviglia della causa, ma in realtà la conosce, solo non si aspettava fosse in quel periodo, forse. Forse lo dice per difendersi e cercare di riparare all’accaduto.

A tutti i passeggeri, gruppo in cui ora possono parzialmente sentirsi inclusi anche i lettori, non rimane che schierarsi più o meno silenziosamente da una parte o dall’altra. La sottoscritta ammette la codardia e l’impreparazione nell’intervenire in quel dato momento. Nella speranza di dare un senso alla cosa prova a scrivere questo articolo.
Forse un comunicato del possibile ritardo, forse prevedibile, avrebbe evitato il diverbio. Forse la cosa non era prevedibile. Forse una spiegazione tempestiva ad ogni utente del bus da parte dell’autista. A ogni fermata si sarebbe trovato a illustrare il problema, cosa che forse non riteneva di sua competenza o che semplicemente non aveva voglia di fare.
Fatto sta che ancora una volta non siamo stati capaci di dialogo, ci siamo chiusi nei limiti delle diverse generazioni, dei pregiudizi, dei commenti, forse anche del mettersi in mostra. Noi adulti, che dovremmo dare il cosiddetto «buon esempio» siamo solo stati in grado di prendercela con altri e riversarvi la nostra frustrazione. Noi giovani non siamo stati in grado di essere comprensivi e abbiamo valutato la situazione troppo in fretta, tralasciando cose. Noi esseri umani abbiamo dimenticato l’ascolto e il dialogo.
Pensiamoci, tra poco ricorrerà anche il trentesimo dalla Convenzione di New York sui diritti dei bambini. Vediamo di non festeggiarla come un morto solo per il periodo dell’anno in cui siamo.