Alcune analogie e differenze tra sovranismo e rivoluzione francese

«In Francia quei processi trasformativi, combinandosi con lo sviluppo della civilisation étatique, consentirono alla borghesia di percepire le diseguaglianze e i privilegi previsti dalla legislazione non erano inscrivibili in un ordine dato, in qualcosa di naturale da dover accettare necessariamente, ma erano il prodotto di decisioni politiche dalla cui formazione essa era esclusa. La percezione delle diseguaglianze portò i rivoluzionari francesi a rimettere in discussione la fonte del popolo sovrano, identificata con un passato di cui c’era solo da fare table rase.
Più che al liberalismo individualistico di Locke, essi guardarono allora al Contratto Sociale di Rousseau, dove potevano trovare una compiuta combinazione teorica tra eguaglianza e sovranità».

Questo stralcio, estratto da «Forme di stato e forme di governo», di Cesare Pinelli, edito da Jovene nel 2009 ci riconduce negli ambienti rivoluzionari d’oltralpe del 1789. Tuttavia, esso risulta piuttosto interessante anche ai fini dell’analisi dell’odierno scenario politico europeo, in particolare italiano. A ben guardare, infatti, si possono cogliere delle calzanti similitudini su cui si intende qui soffermarsi.

In primo luogo, mettiamo in evidenza la grave insofferenza che scorreva nelle vene del crescente ceto borghese. Sempre più vigoroso dal punto di vista numerico, non trovava però il riconoscimento del suo peso economico e sociale a livello politico. Infatti, la suddivisione per stati e l’irrilevanza del voto per testa lo relegava alla minoranza perenne, vista la coalizione tra nobiltà e clero sempre preponderante.
Questa acre contrapposizione è riscontrabile anche nel panorama politico attuale, nel quale si può evidenziare una netta sfiducia nutrita dal popolo nei confronti di chi siede nelle istituzioni pubbliche. Una significativa differenza però è da rilevare: mentre in Francia l’insoddisfazione lievitava soprattutto nei salotti borghesi, i quali miravano a impossessarsi di un potere che in campo economico già si erano guadagnati, oggi il malcontento si manifesta da parte della classe meno agiata, anch’essa, però, ugualmente in fase di cospicua espansione, data l’erosione del ceto medio.

Il salto di qualità, tuttavia, non è ancora stato compiuto qui da noi. D’altronde, fosse avvenuto, ci ritroveremmo nel vivo di una rivoluzione. I nostri cugini, a fine XVIII secolo, seppero abbattere una ben congegnata gabbia mentale in cui anche noi, italiani ed europei del nuovo millennio, dovremmo accorgerci di essere intrappolati. Infatti, furono in grado di mettere in discussione quell’«ordine dato (…) da dover accettare necessariamente»com’è stato delineato da Pinelli. Si armarono di intelligenza, coraggio e buona volontà e decisero di guardare oltre una realtà imposta come irriformabile, calata dall’alto, indiscutibile. Compresero, così, che lo status quo poteva essere ribaltato, poiché determinante era (ed è) la volontà esercitata dall’essere umano: il carattere immobile della politica era semplicemente frutto dell’interesse dell’aristocrazia.

Analogamente dovremmo agire noi, affrancandoci da una visione ineluttabile della fine degli stati nazionali garanti dei diritti sociali, poiché, se essi stanno perendo, è solo a causa di un disegno determinato da uomini e donne come noi, di conseguenza cancellabile e riproducibile con tratti e colori a noi più graditi.

Pinelli fa poi riferimento alla table rase. Chi tra noi ha raggiunto la consapevolezza di cui abbiamo poc’anzi trattato, in molti casi, non si accosta all’ipotesi di fare tabula rasa. Al contrario, riflettendo sull’Unione Europea, non disdegna una sua revisione, eliminando gli aspetti che vessano i popoli ed esaltando i fini di pace e giustizia. Qui risiede un errore, almeno a detta di chi scrive. Non si deve, infatti, farsi offuscare, anche se solo parzialmente, dalla narrazione che vuole l’Ue come massimo simbolo dei valori di civiltà. Essi sono un velo, peraltro, piuttosto sottile, con cui si cerca di celare le reali basi su cui quest’organismo è fondato: l’abbattimento delle barriere poste dagli stati all’interesse economico. Perciò, non si deve pensare all’attuale UE come alla degenerazione di un nobile progetto, bensì al risultato auspicato dal liberismo fin dai suoi albori.
Di conseguenza, non si dovrebbe che fare table rase di tutto pure noi. Certamente, non decapitando i burocrati di Bruxelles, ma adottando un atto netto come il recesso dai trattati.

Infine, anche noi dovremmo ritornare a porre al centro l’uguaglianza (quella sostanziale) con l’indispensabile sovranità per poterla praticare. Un’uguaglianza che la nostra Costituzione attesta però in maniera ben più vigorosa che nello stato liberale sorto in seguito alla decapitazione dei reali di Francia.