Il mistero del «Corvo 2»: uno stalliere senza stalla

di Progetto Turing: Tito Borsa

Quarta puntata

Sul ruolo di Mangano è opportuno aprire una breve parentesi, nonostante la storia dello «stalliere» di Arcore non sia direttamente collegata con il «Corvo 2» e con la figura di Pietro Di Miceli. 

Marcello Dell’Utri conosce Vittorio Mangano a Palermo alla fine degli anni Sessanta. Ed è lui a portare il mafioso ad Arcore, dove rimarrà dal 1973 al 1975. Intervenuto su Radio2 il 9 aprile 2008, Berlusconi cerca di chiarire i propri rapporti con il mafioso: «Era una persona che con noi si è comportata benissimo. Poi ha avuto delle disavventure nella vita che lo hanno messo un po’ in mano a una organizzazione criminale». Come spiegano Marco Travaglio  e Peter Gomez, in L’amico degli amici (Bur, 2005), alla fine degli anni Sessanta Mangano era già stato arrestato tre volte ed era stato oggetto di vari procedimenti penali per truffa aggravata, emissione di assegni a vuoto, ricettazione, lesioni volontarie e tentata estorsione. 

Secondo i documenti, quando Mangano arriva ad Arcore, la locale stazione dei Carabinieri riceve un’informativa dei colleghi di Palermo in cui si parla del mafioso come «persona pericolosa» e Dell’Utri come soggetto informato di questo. 

Il 7 dicembre 1974, all’uscita da una cena a Villa San Martino, viene rapito Luigi D’Angerio, sedicente «Principe di Sant’Agata». I responsabili sono un gruppo di siciliani. Ma a mandare a monte il piano c’è l’imprevisto: mentre fuggono, si schiantano in macchina contro un palo, a causa della nebbia di Monza. D’Angerio riesce a fuggire e a dare l’allarme. I Carabinieri successivamente scoprono che complice dei rapitori era proprio Mangano che, dopo un mese di carcere, viene accolto di nuovo da Berlusconi ad Arcore, nonostante avesse partecipato al tentato rapimento di un suo ospite. Lì manterrà la sua residenza fino all’11 ottobre 1976. 

È il 28 novembre 1986, quando una bomba esplode nei pressi della cancellata della residenza dell’allora Cavaliere in via Rovani 2, immobile che è anche sede della Fininvest, ai Carabinieri Berlusconi spiega di sospettare proprio di Mangano. Pare un po’ strano che, parlando di un uomo che si è sempre «comportato benissimo», lo si sospetti subito per una bomba che ha divelto una cancellata. I dubbi sul fatto che sia stato il mafioso, che invece era in carcere a Palermo (ma né Silvio né Marcello lo sapevano), vengono posti a Dell’Utri in una telefonata fatta poco dopo mezzanotte. Ne riportiamo un estratto. Conosciamo il contenuto di questa telefonata perché Dell’Utri era indagato per bancarotta a Milano e aveva il telefono sotto controllo. 

BERLUSCONI: Allora, è Vittorio Mangano…
DELL’UTRI: Eh! Che succede?
BERLUSCONI: Che ha messo la bomba!
DELL’UTRI: Non mi dire!
BERLUSCONI: Sì.
DELL’UTRI: E come si sa?
BERLUSCONI: Da una serie di deduzioni, per il rispetto che si deve all’intelligenza.
DELL’UTRI: Ah.

Ora, per il rispetto che si deve all’intelligenza, nonostante non sia possibile sapere quale tono avesse la conversazione, dalla trascrizione non sembra che i due interlocutori siano spaventati o stupefatti, dopo che una bomba ha distrutto la cancellata della casa di uno dei due. Berlusconi a questo punto però dà a Dell’Utri un’informazione sbagliata su Mangano.

BERLUSCONI: È fuori.
DELL’UTRI: Ah, è fuori?
BERLUSCONI: Sì, è fuori.

A mettere una bomba può essere solo Mangano, secondo Berlusconi. Ecco perché.

BERLUSCONI: E questa cosa qui, da come l’ho vista fatta, con un chilo di polvere nera…
DELL’UTRI: Ah!
BERLUSCONI: Una cosa rozzissima!
DELL’UTRI: Ah!
BERLUSCONI: Ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto.
DELL’UTRI: Ah!
BERLUSCONI: È stata fatta soltanto sulla cancellata esterna!
DELL’UTRI: Ah!
BERLUSCONI: Ecco, secondo me, è come una rich… un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo la bomba.

In un passaggio successivo della telefonata, Berlusconi definisce la bomba una «cosa rispettosa e affettuosa», e Dell’Utri si mette a ridere. Ad assistere a quella telefonata c’è anche Fedele Confalonieri, ex compagno di suonate di Berlusconi e da allora suo amico e fedelissimo collaboratore. Anche lui è convinto che il colpevole della bomba sia Mangano. 

DELL’UTRI: Ma se è fuori, non ci sono dubbi direi!
CONFALONIERI: Sì, sì!
DELL’UTRI: Perché non c’è… a parte che non… non c’è… voglio dire…
CONFALONIERI: Non è un uomo di fantasia!
DELL’UTRI: Non è un… Esatto! Proprio è… Si ripete…
CONFALONIERI (ridendo): Ha cominciato a dieci anni a far così…
DELL’UTRI: Sì, sì!
CONFALONIERI: …ha quarantasei anni adesso!
DELL’UTRI: Sì, e poi, anche con un tentativo timido, in effetti!
CONFALONIERI: …solo per dire «Sono qui!». (ride)

Più avanti Berlusconi fa presente a Dell’Utri che la «dinamica» dell’attentato è di una «semplicità» che è Marcello stesso a definire «alla Mangano». 

Il giorno dopo Berlusconi definisce – parlando sempre di Mangano – la bomba come «una ripetizione a memoria dell’unica cosa che lui sappia fare». Secondo i due interlocutori, il boss mafioso «non sa scrivere» e per questo, anziché mandare una banalissima lettera, ha preferito far saltare in aria una cancellata. Si tratta, lo ripetono, di un gesto «fatto con grande rispetto, con grande riguardo perché se lo buttava all’interno, succedeva una cosa grossa». Berlusconi arriva a definirlo semplicemente un «segnale acustico». Che Mangano fosse in carcere, i due lo scopriranno durante la giornata, e la bomba secondo molti è stata piazzata da esponenti della mafia catanese, ma questo a noi interessa fino a un certo punto.

La domanda è la seguente: perché mai Mangano, lo «stalliere» (o «fattore») che si era sempre «comportato benissimo», avrebbe dovuto piazzare una bomba in via Rovani?

La risposta si può trovare nella sentenza della Corte d’Appello di Palermo, datata 25 marzo 2013, sentenza, poi confermata in Cassazione, con cui Marcello Dell’Utri è stato condannato a 7 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Innanzitutto i giudici chiariscono la presenza di Mangano ad Arcore, visto che risultava difficilmente credibile che ci fosse uno «stalliere» senza che ci fosse alcuna stalla. Il mafioso ha avuto una funzione di «garanzia» e di «protezione» di Silvio Berlusconi e dei suoi familiari, interpretazione «confermata dal fatto che, dopo l’allontanamento di Vittorio Mangano da Arcore, l’imprenditore si era munito di un servizio di sicurezza privata». 

Ovviamente però il «servizio» fornito da Mangano non era gratis e infatti è stato dimostrato in sede processuale che l’«invio di Mangano ad Arcore» era destinato a divenire per «“Cosa Nostra” un modo per ottenere guadagni e profitti illeciti». Tant’è che il boss mafioso Stefano Bontate (cognome scritto comunemente anche Bontade) non si era fatto particolari problemi a mandare il gregario Gaetano Cinà a chiedere a Berlusconi 100 milioni di lire.

Nel prossimo articolo tireremo le fila sull’intera vicenda