Il Partito Democratico ha bisogno di un leader in stile Bonaccini

Lo stesso giorno della vittoria di Stefano Bonaccini nella roccaforte rossa d’Italia, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, pubblicava sui social una foto che lo ritrae nel suo ufficio in una posa trionfante e svaccata al tempo stesso mentre attende gli ormai certi risultati della vittoria. Insomma, dopo la riconferma lo scorso 26 gennaio di Bonaccini alla presidenza dell’Emilia-Romagna, a sinistra sembra essersi riaccesa la speranza. Dopo mesi passati all’ombra della Lega salviniana e con sempre meno elettori al seguito, per il Partito Democratico la vittoria di Bonaccini è arrivata un po’ come una manna dal cielo. Eppure, interpretare questo successo come un imprescindibile segnale della rinascita del Pd e della sinistra italiana rischia di essere, se non un’illusione, certamente una conclusione affrettata. 

Innanzitutto, è bene avere in mente che l’Emilia-Romagna non è l’Italia e viceversa. Se alle elezioni parlamentari i nomi contano, ma solo fino ad un certo punto, alle regionali le dinamiche interne esercitano indubbiamente maggiore influenza sugli elettori avendo come unico risultato quello di aumentare la probabilità del voto ad personam piuttosto che di appartenenza. A questo punto, la strategia vincente può essere una sola: sapersi vendere a prescindere dallo schieramento politico. Questo Bonaccini l’ha capito fin da subito e da lì al fare della propria campagna elettorale una questione di voto personale c’è voluto poco. Così, alla figura debole di Lucia Borgonzoni, che ha pagato inoltre la costante compagnia di Salvini, si è contrapposta quella carismatica e convincente di Stefano Bonaccini, candidato di centrosinistra dall’allure radical chic e dichiaratamente antisalviniano.

In fin dei conti, considerato il recente clima di mobilitazione tanto politica quanto apartitica, scatenato tra gli altri dalle Sardine, le cose non potevano andare diversamente. La paura della Lega al potere, in particolar modo in una regione storicamente rossa, è bastata in questo senso per far guadagnare alla coalizione di centrosinistra il consenso di buona parte dell’elettorato, che si è trovato così costretto a votare Bonaccini per scongiurarla. Ma la questione non è nemmeno così semplice e, a voler ben guardare, seppur il Pd non possa mettersi a fare i salti di gioia, è giusto riconoscergli un merito: Stefano Bonaccini. Favorito tanto dai risultati ottenuti nel mandato precedente quanto dal carisma indiscutibile, che hanno messo d’accordo un po’ tutti, il candidato del centrosinistra ha infatti saputo sfruttare gli effetti e la presa sulle masse delle recenti mobilitazioni dal basso, trasformando sapientemente una sfida tra partiti in una sfida personale tra se stesso e l’ultimo nemico delle piazze, Matteo Salvini, di cui la Borgonzoni in fin dei conti risultava essere solo un fantoccio. 

La lezione per il Pd dovrebbe essere a questo punto chiara: se, come vuole il detto popolare, «chiodo schiaccia chiodo», allora per ricominciare a guadagnare punti nei sondaggi e imporsi sulla Lega, il partito di Zingaretti deve necessariamente organizzarsi intorno ad un leader forte, in grado di catalizzare il consenso su se stesso e di indirizzare la sinistra italiana secondo una definita e unica linea politica. In poche parole, la richiesta da fare al Partito Democratico non deve essere quella di ripartire da Bonaccini, ma da figure come Bonaccini.