Autoritratto di un survivor: tre mesi da quando ho saputo del suo suicidio

Piccola premessa: sin da quando ho iniziato a dirigere questo blog, quasi sei anni fa, ho sempre cercato di tenere fuori la mia vita privata da quello che scrivevo. E anche andando avanti ho sempre voluto mantenere questa distinzione. Se oggi vado in direzione opposta, è sia perché alcune volte le questioni private invadono completamente lo spazio riservato al lavoro, sia perché forse queste mie parole possono servire a qualcuno che si trova in una situazione simile alla mia.

Il 13 febbraio sarà per me una data importante: tre mesi da survivor. Una parola per definire chi sopravvive al suicidio di una persona cara. Nel mio caso una ragazza che per me è stata importantissima e che continua a far parte della mia vita, nonostante non ci sia più. Purtroppo ci eravamo allontanati e questo ha portato al fatto che ho saputo della sua morte con un mese di ritardo, mentre ero al lavoro. Era il 13 novembre. Da allora sono passati tre mesi ma a me sembra che sia passata una vita intera. Ho rifiutato la realtà fino al 30 dicembre, quando sono andato a trovare i suoi genitori e ho realizzato che purtroppo era tutto vero.

Da piccolo ho perso in rapida successione mio nonno e mia nonna. E il giorno del mio nono compleanno è morta mia zia, la sorella di mia madre. Aveva 49 anni e un cancro di cui io, bambino inconsapevole, non mi rendevo conto. Se quest’ultimo lutto è stato il più difficile da accettare, quando sono morti i miei nonni ho vissuto un’esperienza che, potremmo dire, fa parte della vita.
La perdita di una persona per me molto importante, di una ragazza di ventun anni che ha deciso di buttarsi sotto un treno, invece, è tutta un’altra storia. È assurdo fare una graduatoria delle tragedie che possono colpire la vita di ciascuno di noi, infatti non sto facendo una classifica. Mi limito a dire che è una cosa del tutto diversa. Non è solo la morte di una persona a cui tengo tantissimo, non è solo una morte prematura e inaspettata. Il suicidio si porta dietro tanto altro.

Non ho la pretesa di voler generalizzare quanto ho provato e quanto continuo a provare ogni giorno. Questa è solamente la mia esperienza.

Da una parte ci sono i rimpianti e i rimorsi. Rimpianti per tutte le cose che avevamo in mente di fare e che non faremo mai. Rimorsi e sensi di colpa perché sono consapevole di non essermi sempre comportato bene con lei e non ho mai trovato il tempo di chiarire. «Ci vediamo appena torno da Roma», le avevo detto un mese prima che lei decidesse di uccidersi. Pensiamo sempre di avere tempo a sufficienza per fare tutto, per trovare il momento migliore per ogni cosa, ma questa volta il tempo non c’è stato. E io rimango con tutto quello che avrei voluto dirle, con le scuse che avrei voluto farle e con l’abbraccio forte che avrei voluto darle. Un abbraccio che avrebbe sottinteso Anche da lontano, io sono sempre dalla tua parte, a fare il tifo per te.

Dall’altra parte ci sono le immagini che puntualmente tornano nella mia mente. Una fra tutte l’immagine di lei che da sola si dirige verso la stazione ben consapevole di ciò che sta andando a fare. La vedo con una precisione tale che talvolta mi sembra di esserci stato, lì con lei. Invece no, lei era da sola.

Per alcuni mesi ho evitato di rendere pubblici i dettagli di questa storia, anche se urlarli al mondo mi fa bene. Ho evitato di farlo per pudore ma la verità è che non c’è niente di cui vergognarsi. Tre mesi dopo aver saputo che lei si era uccisa sono ancora dilaniato dal dolore, ma non me ne vergogno. Ho avuto a che fare con tante persone che hanno cercato di starmi vicino, nonostante il dolore che mi perseguita ogni giorno è qualcosa di difficile anche solo da spiegare. E ho avuto a che fare con gente che ha solo voluto ficcanasare nel mio dolore oppure che si è semplicemente allontanata, forse spaventata da questa tragedia.

Parlando con un altro survivor, ho realizzato come sarebbe stato tutto diverso se quel 13 novembre io fossi, per esempio, stato investito e mi fossi fratturato un sacco di ossa. È ovvio che si tratta di due cose differenti, ma quello che intendo dire è che i traumi fisici sono considerati molto di più di quelli psichici. Se sei a letto con le gambe ingessate sembri più «a pezzi» di una persona che ha subito un lutto come questo e che esteriormente è come prima ma dentro è devastata. Questo dovrebbe essere una lezione per tutti: i disagi psicologici non sono un semplice «stare male», non sono una tristezza passeggera quindi «Prova a distrarti e andrà meglio». Alcune volte sono malattie a tutti gli effetti, altre volte sono traumi che hanno la stessa forza e la stessa violenza (se non superiore) di traumi fisici come un grave incidente stradale, tanto per rifarmi all’esempio che ho fatto prima.

Non mi vergogno di essere un survivor, non mi vergogno del mio dolore. So che non sarà mai tutto come prima, so che non sarò mai più quello di prima. Ma sto lavorando per scendere a patti con il dolore che mi perseguita ogni giorno e spero di riuscire a declinare questo trauma in un modo che mi possa permettere di rendermi utile per gli altri.

Per quanto riguarda lei, quello che mi rimane sono i ricordi. Quelli belli e quelli brutti. Mi ricordo quando l’ho accompagnata al suo primo giorno di lavoro tenendole la mano per cercare di tranquillizzarla. Ma la verità è che ero più in ansia io di lei. Mi ricordo le lezioni di chitarra che diventavano sempre delle chiacchierate lunghissime. Tutti gli altri ricordi li tengo per me, sono un tesoro che conserverò per sempre.