Far sentire la propria voce: il saluto di Debora

Ho iniziato a scrivere in questo blog quasi due anni fa, nel settembre 2018. Per qualcuno sarà una quantità di tempo irrisoria, forse ridicola. Per me, invece, sono stati due anni intensi, nel mezzo dei quali, ogni mese mi soffermavo per una o due volte a pensare. Concentravo tutti i miei pensieri su un tema, un qualcosa che mi stesse a cuore e per il quale volessi far sentire la mia voce. A volte con piccoli risultati, altre con maggiore soddisfazione. Nonostante ogni volta arrivassi a pensare di non avere abbastanza tempo e che fosse venuto il momento di lasciare, ho sempre risoluto – per dirla come i grandi scrittori di 50 anni fa – di rimanere. Questo perchè in quell’ora o due di scrittura trovavo spazio per me stessa, per ragionare e rielaborare questioni che mi fossero rimaste lì, magari ingarbugliate. Nel momento stesso in cui scrivo ora mi verrebbe da ripensare alla decisione che ho preso, ma credo ormai di averla appunto presa.

Mi è stato di grande compagnia e di supporto, proprio perché  sentivo di aver finalmente trovato il mio balcone da cui farmi sentire, il mio piccolo podio su cui innalzarmi, non per sentirmi superiore, ma solo per far arrivare a più persone possibili la mia voce.  Voglio restituirvi un’immagine che viene da uno scrittore del secolo scorso, uno di quelli a cui sento dovrei ispirarmi e che credo sia stato in grado di collegarsi a molti altri scrittori. È come una rete, cui si può decidere di connettersi, anche in più punti e con legami più o meno forti. Di recente, pare sia l’interpretazione del mondo più verosimile: un sistema complesso con migliaia di puntini collegati tra loro e degli snodi più grossi di altri, dove i rapporti sono molti e concentrati. Ecco, in uno di questi snodi, per me sta Levi, Primo Levi. A pagina 125 della mia versione de «I sommersi e i salvati» dice: «Ecco, avevo scritto quelle pagine senza pensare ad un destinatario specifico; per me, quelle erano cose che avevo dentro, che mi invadevano e che dovevo mettere fuori: dirle, anzi, gridarle sui tetti; ma chi grida sui tetti si indirizza a tutti e a nessuno, chiama nel deserto». Con il suo deserto mi ha ricordato il Piccolo Principe e almeno un paio di scene da Star Wars. In queste righe e in queste immagini ho trovato quel desiderio profondo e viscerale di esprimermi, ma anche quel senso di calma e dispersione che collego all’habitat sabbioso. Non c’è che dire, l’effetto del lockdown si sente tutto. 

Mi sento fortunata perché non ho dovuto affrontare turni disumani in ospedale o al supermercato o nel magazzino di un supermercato, non ho avuto personalmente problemi di salute e in pochi attorno a me ne sono stati toccati. Quindi, sì, mi dichiaro decisamente fortunata o beata, come la si voglia vedere.

Questo non vuol dire che non abbia sofferto per altri motivi o in altri modi. Forse è proprio perchè non potevo rendermi utile nè dovevo affrontare direttamente e attivamente i problemi, che mi sono sentita così bloccata e insignificante. In questo senso, prendermi cura dell’orto e delle piante è stato per me salvifico. Ho sentito di dare, anche se in minuscola parte, il mio contributo. Ogni secondo di lavoro era donato a me stessa e agli altri, esattamente come quanto scrivo. Ogni parola è per me liberazione, un pezzettino della matassa che si srotola, si svolge e prende vita, come un semino che entra nella terra e comincia ad intrecciare la propria vita con essa. Quasi non sono riuscita a scrivere e in effetti ho preferito intervistare altri, dare loro la parola. Io avevo il mio orto e le mie piante. Probabilmente ora farò ridere qualcuno per questa mia fissazione: gli amici sanno che ho cominciato a regalare piante, oltre che a prendermene cura io stessa. Anche prima lo facevo in realtà, ma con minore costanza forse.

Tutto questo per dire che credo sia arrivato il mio momento per lasciare La Voce, proprio perché sento che non è più da questo balcone che voglio steccare farmi sentire, non sono più questi il modo e il tempo che sento consoni. Scrivere perché si deve non mi è mai riuscito e non voglio fare torto nè a chi dovesse malauguratamente trovarsi a leggere il prodotto di un simile obbligo, nè a me stessa nell’adempierlo. 

Grazie ai miei colleghi, che ho letto e che mi hanno letto e grazie alla cara Gerarda, che ha pazientemente corretto ogni mia bozza e mi ha aiutato a far uscire per la prima volta un mio racconto. Spero sia solo l’inizio.