Il concetto di sovranità statuale e il suo mutamento nel corso della Storia

Lo Stato moderno nasce intorno alla metà del 1500. Lo spartiacque viene rappresentato dall’opera «Il Principe» di Machiavelli pubblicato nel 1513. Esso si basa essenzialmente su tre elementi: popolo, territorio e la sovranità. I primi due elementi sono abbastanza intuibili: il popolo è composto da un insieme di individui che hanno delle caratteristiche comuni come la lingua, la provenienza, la storia, la cultura; mentre il territorio è lo spazio terrestre, aereo e marittimo dove risiede quel determinato popolo. Veniamo al terzo elemento fondamentale, la sovranità, esso è il potere d’imperio esercitato da quel popolo, sul suo territorio. Le caratteristiche di questo elemento hanno subito numerose variazioni nel corso della storia.

Secondo Jean Bodin, primo teorico dell’assolutismo, l’esercizio della sovranità doveva essere indivisibile, assoluto e perpetuo. Ciò significa che non poteva che risiedere in unico individuo, seppur è concesso la delega dell’esercizio della sovranità. Tutto ciò non significa però che il potere sia arbitrario di per sé, perché il sovrano deve in ogni caso rispettare le leggi di natura.

Quasi un secolo dopo, nel 1651 esce l’opera «Il Leviatano» curato dal filosofo inglese Thomas Hobbes che vede come l’unico modo per garantire la pace, l’assolutismo. Il sovrano ha pochi doveri, essenzialmente due, quello di garantire la pace e la vita. Bisogna ricordare che questa visione così estrema è condizionata dall’epoca storica in cui il filosofo inglese si trova a vivere. Un secolo contrassegnato dalle numerose guerre di religione e da un evento che turberà profondamente Hobbes, il regicidio avvenuto per decapitazione di Carlo I, accusato di tradimento nei confronti del popolo inglese. Non dovrebbe sorprendere, di come l’autore concepisca uno stato di natura basato sulla violenza e sulla sopraffazione, usando le parole di Thomas Hobbes, «uno stato di guerra permanente». Ciò contribuisce a concepire un concetto di libertà negativa, essenzialmente si considera libertà ovunque tace la legge. La legge è rappresentata come una lunga siepe, dove essa finisce inizia la libertà.

Questo concetto di sovranità assoluta inizia a mutare dalla Rivoluzione francese in poi, momento dal quale si comincia ad introdurre il concetto di sovranità nazionale, concetto legato all’ascesa della borghesia industriale che si considerava l’unico ceto sociale a contribuire alla ricchezza reale del Paese. Un concetto che ha ingannato le fasce sociali più basse che hanno dato un contributo fondamentale alle sorti della Rivoluzione, per poi non vedersi riconoscere i diritti sociali. Solo dopo un’estenuante lotta durata più di un secolo si arriva al concetto di sovranità popolare su cui si basano le nascenti democrazie del secondo dopoguerra.  Un concetto che vuole portare a una democrazia sostanziale, a una vicinanza verso le fasce sociali più deboli. La democrazia è tale in quanto garantisce una serie di diritti sociali: lavoro, istruzione, previdenza sociale, sostegno ai meno abbienti. L’obiettivo, come fece inserire nella nostra Carta fondamentale il padre costituente Lelio Basso, è di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 

Negli ultimi trent’anni, questo concetto è stato fortemente ostracizzato dai teorici del liberalismo, vedi Von Hayek, i quali vedono lo Stato e quindi, di riflesso, l’esercizio della sovranità popolare come un freno ai grandi gruppi di potere economico. Questo ha portato e sta portando tuttora a classi dirigenti colluse e traditrici della volontà popolare a compiere cessioni di sovranità statuale ad organismi sovranazionali, come l’Unione Europea.