Gli Stati dei Generali: il resoconto del primo congresso di partito

È finalmente arrivato il giorno.

È finalmente arrivato il giorno oltre il quale non si torna più indietro.
Chi vi parla era una bambina, simpatizzante della politica rivoluzionaria, condotta con l’arma gentile, la parola coraggiosa, ma che mai, da giovane adulta, avrebbe pensato di vivere così presto l’amarezza della disillusione.

Dopo due anni dall’inizio dell’esperienza di governo nazionale, dopo dieci mesi dalle dimissioni di Luigi di Maio dalla carica di capo politico, dopo gli addii di 51 parlamentari transfughi (record nella storia della repubblica parlamentare), il fu Movimento 5 Stelle ha inaugurato il primo Congresso di Partito.
Beppe Grillo, che, il Presidente del Consiglio, a dispetto dei suoi 72 anni, definisce come la mente più giovane e curiosa del partito, è assente.
Davide Casaleggio, figlio del cofondatore e presidente dell’Associazione Rousseau, primo amministratore degli strumenti decisionali di democrazia diretta, ha, invece, rinunciato alla partecipazione e contesta con vigore la legittimazione democratica dei 30 rappresentanti.
Pretende che siano pubblicati i voti conseguiti dai delegati nazionali e dai relatori finali, che sia resa conoscibilità e pubblica lettura dei verbali delle riunioni provinciali e regionali.
Bollato come soggetto non autorizzato a far uso del Blog delle Stelle, ha recentemente ingaggiato una dura guerra contro i parlamentari morosi, accusati non solo di non aver versato all’associazione i dovuti contributi, ma anche di non aver dato seguito al primo impegno assunto con l’elezione, ossia la restituzione degli stipendi e il rendiconto delle spese.
Il suo tuono finale è tagliente: «Le persone che dibatteranno dei nostri valori dovrebbero in primis aver rispettato le regole che abbiamo oggi. Non vorrei che si arrivi al paradosso che a scrivere le regole siano anche coloro che per primi non le rispettano».

A non voler essere accostato ai nuovi maiali della fattoria, è, invece, Alessandro Di Battista, il quale, prima ancora che si dia apertura alla cerimonia dei buoni propositi, intende, da un lato, rimarcare la condivisione, presso gli attivisti, delle sue opinioni, tutt’altro che minoritarie, dall’altro ambisce a difendere il sudore della base, ampiamente sfruttata, in epoca elettorale, ai fini della costruzione del consenso, ma adesso obbligata a subire i diktat di una «classe dirigente» che azzera il dibattito e riduce gli esponenti critici ad un fastidioso manipolo di eretici e dissidenti.
I nuovi padroni sono genuflessi al potere, assumono un atteggiamento intransigente nei confronti dei boiardi di Stato, ammettono gli inquisiti Profumo e Descalzi alla gestione delle grandi società a controllo pubblico. I maiali bevono, mangiano e parlano come gli uomini, mentre gli altri animali, esclusi dal banchetto, osservano da lontano, senza riconoscere i volti e comprendere le parole di chi un tempo era amico, oggi è il tiranno.

Nessuna delle voci critiche può esimersi dall’analizzare il distacco tra la base e il cerchio magico.
Luigi Gallo, rappresentante della corrente «Parole Guerriere», si oppone all’impostazione individualista data dall’arbitraria figura del capo politico, mentre Roberto Fico non nega l’emersione di pericolose derive, tra cui il personalismo e la rincorsa al consenso a discapito della costruzione.
Giulia Grillo dichiara di aborrire l’espressione «leadership», ma di reputare essenziale la costituzione di un esecutivo aperto, preferibilmente a composizione variabile, mentre Vincenzo Presutto denuncia una grave interruzione del rapporto con i cittadini e inneggia ad una governance allargata.
Andrea Quartini, medico e attivista, avanza la prima cura alle sofferenze interne: la presenza fisica sui territori, accompagnata da un’articolazione organizzativa costante.

Il coro festante dei ministri e sottosegretari, però, è il narratore di tutt’altra storia.
Tiene a precisare che l’attività governativa ha prodotto frutti impensabili, come il Reddito di Cittadinanza, la normativa anti-corruzione, l’Ecobonus 110%, il Decreto Dignità.
Insomma, con le fruttuose mani dei saggi, competenti ed esperti politici a 5 stelle, sono state lietamente soddisfatte le richieste dei cittadini.
Uno non vale l’altro e i nuovi impegni da assolvere dovranno essere affidati a personalità di spicco, credibili, meritevoli.
I meritevoli, allora, si dilettano nella declamazione delle etichette.
Organo collegiale! Scuola politica di formazione! Struttura capillare, territoriale, leggera, tonica! Il Movimento dei Giovani! La centralità della donna! Viva il Sud, grande miniera d’oro!
Ambiente, sanità, sicurezza!
Giulia Grillo, però, ex capogruppo alla Camera, Ministra della Salute nel primo governo Conte, oggi semplice deputata, ricorda ai colleghi di governo che occorre avviare il promesso ricambio generazionale.
E tutti, unanimemente, rispondono implicitamente all’invito, circoscrivendo lo spazio temporale dell’attività politica diretta: il limite del doppio mandato si impone agli iscritti come principio assolutamente inderogabile.
Mai, dunque, potrebbe risultare ammissibile la candidatura ad un terzo mandato, diversamente da ciò che Vito Crimi, reggente in pectore, aveva indicato nelle settimane precedenti come nuova frontiera da abbattere.

Contro la schiera degli eretici sembra essersi, poi, infranta la celebrata alleanza strutturale e organica con il Partito Democratico, considerata da Luigi di Maio, all’esito delle elezioni amministrative di settembre, un’interessante strada da percorrere, in vista del conseguimento di risultati favorevoli nei territori.
Insomma, come sintetizzato da Roberto Fico, l’eventualità di addivenire ad alleanze, nei comuni, con liste civiche e partitiche, ove possibile, non è scongiurata, purché si costruisca una solida condivisione programmatica di idee e obiettivi. Sullo sfondo, inoltre, emerge come prioritario il tentativo di realizzare insieme al centrosinistra un’agenda amministrativa locale, che consenta alla forza politica di porsi come dialogante, ma, al tempo stesso, non subalterna, indipendente e intrinsecamente originale.
Le conseguenze della convivenza con Salvini prima, con l’eterogenea schiera democratica poi, hanno mostrato, tuttavia, un modello di gestione delle alleanze che, secondo la base, non pare aver garantito la conservazione dell’intima essenza del Movimento 5 Stelle.

Barbara Floridia, senatrice dal 2018, si rivolge ai sospettosi e ricama un discorso gioioso sull’importanza del cambiamento interno. È convinta che tale processo di rinnovamento, non ancora del tutto completo, permetterà di convertire la vecchia energia interna, ormai esaurita, in energia rinnovabile, che non inquina, ma cura: il treno ha fischiato, ha fischiato un treno che andrà a idrogeno!

Per altri, invece, il sogno si è trasformato in incubo. Il terrore, dinanzi all’orrendo spettacolo di decomposizione, è tutto nelle parole di Matteo Brambilla, consigliere comunale a Napoli, che ribattezza la convention di partito da Stati Generali a «Stati dei Generali».
Invia al club degli oligarchi un ultimo urlo disperato:
«Avete ancora una possibilità per sentire quelle voci, che arrivano forti dai territori, di chi è stanco di assistere al disfacimento della democrazia dal basso. Cambiate rotta o come diceva Charlie Wilson: abbiamo cambiato il mondo, ma poi abbiamo scazzato il finale».

Che cosa rimane, allora, del primo congresso del Partito 5 Stelle?

Resta l’inusuale apparizione di Giuseppe Conte, attento a porgersi per la prima volta, in modo manifesto, come fondamentale interlocutore, ma, al tempo stesso, ad evidenziare la sua estraneità e terzietà rispetto alle dinamiche interne; restano le assenze clamorose di Grillo e Casaleggio; resta il tentativo di una nuova classe di professionisti della politica di cristallizzare la posizione di dominanza nel partito, ma restano anche le istanze di chi reagisce all’occupazione delle cariche pubbliche, invocando la rigenerazione e il ricambio, la condivisione delle scelte, l’apertura del dibattito, lo scambio delle informazioni, la partecipazione diffusa, la rinascita del Movimento.

Da un lato i rivendicatori di una vittoria non condivisa, il conseguimento del personale successo politico, dall’altro i denunciatori del fallimento di un percorso di compartecipazione al cambiamento culturale del Paese.
Il fallimento assoluto suggerisce una rappresentazione semplicistica e manichea della realtà, che è necessario escludere e che non viene richiamato nemmeno dai più intransigenti.
Non esiste, tuttavia, alcuna storia di vero successo che possa dirsi conclusa per opera di un unico vincitore.
Il partito punta alla distribuzione dei premi individuali, il movimento punta alla condivisione di un premio sociale.
Il partito fallisce, il movimento vince.
L’agonista fallisce, la squadra vince.