Giustizia (e verità) per Marco Vannini

Oggi sono 2026 giorni che la vita di Marco Vannini è stata spezzata.
Un giovane dal cuore gentile, dal futuro roseo e con una famiglia alle spalle che lo amava più di ogni altra cosa, è stato ucciso nella casa di quelle persone che considerava una seconda famiglia. Duemilaventisei giorni sono tanti, come le sfide che la sua famiglia ha dovuto sopportare per arrivare ad un minimo di giustizia.

Chi era Marco Vannini?
Alle udienze papà Valerio guardava spesso il cellulare per riacquistare forza e vigore. In quel cellulare c’erano tante foto di Marco. Marco bambino, Marco neonato, Marco che faceva i primi passi, Marco sulla moto, Marco al mare.

Marco era questo e molto altro. Gli occhi dei genitori e degli amici, mentre parlano di lui, raccontano quanta ricchezza portasse alle loro vite quel ragazzo.
«Marco era gioia. Per me era un figlio, era un fratello, era un amico, era tutto», diceva papà Valerio.
«Marco ha, aveva, una passione per la moto, che probabilmente gli ho trasmesso io. Per sentirlo vicino vado in moto e quando metto il casco e vado mi sembra come se portassi lui».
La sua famiglia vive di ricordi ed è da lì che ha preso tutte la forze per affrontare questi 2026 giorni pieni di omertà, menzogne ed attacchi.

La sua famiglia lo amava molto, ma anche Marco amava tremendamente quella famiglia così unita.
«Marco era meraviglioso, non lo dico perché sono sua madre, era il figlio che ogni genitore avrebbe voluto»: queste le parole di mamma Marina, che non ha mai smesso un secondo di combattere per avere giustizia per suo figlio.

Questa madre che ha dovuto prima sentirsi dire che negli ultimi attimi di vita suo figlio non l’aveva cercata, quando invece «Marco urlava, chiamava la madre disperato e chiedeva ripetutamente scusa a Martina (ndr. Ciontoli)» come ha riportato una vicina di casa e come certificano gli audio delle chiamate al 118; mamma Marina, che ha dovuto ascoltare l’incredibile frase gelata di Maria Pezzillo, madre della fidanzata di Marco, in cui affermava che « mio marito perderà il lavoro » a causa di questa storia;
Marina, che è stata persino cacciata dall’aula del tribunale dal Presidente della Corte d’Assise d’Appello Andrea Calabria durante la lettura della sentenza, sentendosi dire « se volete farvi una passeggiata a Perugia ditelo!», intendendo che avrebbe preso provvedimenti nei suoi confronti per aver interrotto la lettura della sentenza, senza un minimo rispetto ed empatia.
Una famiglia, però, che ha fatto della dignità il suo segno distintivo.

Intervistata da FanPage, racconta un fatto che può descrivere chi fosse Marco più di mille parole: «Durante una delle prime fiaccolate per chiedere verità e giustizia, si avvicina una signora con un peluche che dice di volere che sia nella cameretta di Marco. Io le chiedo perché e mi dice che ha conosciuto Marco quando faceva il bagnino. Prima organizzava sempre una partita di calcio per i bambini, poi allungava un occhio verso il suo ombrellone. Ha un figlio disabile, dopo che finiva la partita gli comprava il gelato e veniva ad imboccarlo sotto l’ombrellone».

Una famiglia che ha affrontato unita, dall’inizio alla fine, ogni udienza.
Una famiglia che si è allargata in questi anni, includendo tutte le persone, conoscenti e sconosciuti, che hanno preso a cuore questa storia, non abbandonandola mai.

Ecco la ricostruzione (ufficiale) degli eventi.
È il 17 maggio 2015 quando Marco Vannini si trova nella villetta in Via Alcide De Gasperi (Ladispoli), casa della famiglia della sua fidanzata. In quella casa sono presenti Marco, Martina Ciontoli (la sua fidanzata), Maria Pezzillo (la madre) Federico Ciontoli (il fratello) e Viola Giorgini (la fidanzata del fratello).
Intorno alle 23, Marco chiama al cellulare il padre per dire che non sarebbe tornato a dormire a casa.
La madre racconta di voler precisare questo fatto perché «quando Marco discuteva con Martina restava a dormire lì»: tenete a mente questo particolare.

Intorno alle 23.15, Marco viene colpito da un colpo di arma da fuoco.
A premere il grilletto sarebbe il padre di Martina Ciontoli, Antonio, mentre Marco si trova nella vasca da bagno. Più volte la famiglia Vannini sottolinea che Marco non avrebbe mai fatto entrare il suocero in bagno mentre era nudo nella vasca. Quando Marco si faceva il bagno in casa non faceva entrare neanche i suoi genitori. Antonio Ciontoli, sottoufficiale della Marina Militare distaccato ai Servizi Segreti, dichiara nell’interrogatorio questa prima versione: «Presi le armi per non farle prendere a Marco. Sono entrato visto che erano nella scarpiera. Marco era seduto nella vasca, mi ha chiesto di prendere l’arma perché lui era appassionato. Mi sono lasciato convincere nel fargli vedere l’arma e nel movimento il marsupio mi stava per cadere, mettendo la mano sotto praticamente ho stretto l’arma che avevo impugnato e mi è partito il colpo».

La sua pistola, però, una Beretta calibro 9, ha un difetto e per sparare il cane va armato manualmente, altrimenti il colpo non partirebbe. Così Antonio dà un’altra versione: «Stavamo scherzando, lui voleva vedere l’arma io gli ho detto di no, ed è successo questo incidente. L’ho armata per far vedere il funzionamento a Marco. Ho caricato, ho premuto il grilletto e mi è partito il colpo».
L’autopsia rivela che sarebbe molto difficile, se non impossibile, esplodere il colpo nella posizione in cui si trovava Antonio Ciontoli.

L’unica che sarebbe potuta entrare nel bagno, come succedeva anche a casa di Marco, era Martina, la sua fidanzata che tutti i conoscenti descrivevano per la grande possessività che aveva nei suoi confronti. Marco sarebbe voluto diventare un carabiniere ed il fatto che Martina potesse aver paura che lui potesse allontanarsi da lei potrebbe essere stata una delle motivazioni di un possibile litigio che lo avrebbe convinto a rimanere a dormire lì quella sera.
Martina dichiara di non essere presente nel bagno al momento del colpo e di essere corsa in bagno dopo aver sentito un forte rumore: «Quando sono entrata nel bagno la prima cosa che ho fatto è chiedere cosa sia successo e papà ha detto che era un colpo d’aria e Marco si era spaventato».
All’interrogatorio disse però: «Non ho visto mio padre puntare la pistola, sono entrata ed ho visto la pistola per terra. Ho visto mio padre vicino a Marco che gli diceva di stare tranquillo». Non solo, nelle intercettazioni ambientali effettuate 15 ore dopo la morte di Marco nella caserma di Civitavecchia, Martina descrive così il momento dello sparo: «Era destino che doveva morire. Ho visto papà quando gli ha puntato la pistola (…) ed è diventato pallido».

Dopo quasi 30 minuti dallo sparo avviene la prima chiamata al 118. A farla non è il capofamiglia, che non si sente assolutamente presente all’interno delle registrazioni della chiamata. Le voci che si sentiranno saranno solo quelle di Federico Ciontoli e Maria Pezzillo. Federico chiede all’ambulanza di venire perché Marco non respirerebbe, sarebbe pallidissimo, a causa di uno scherzo finito male. L’operatrice chiede quale scherzo si trattasse e Federico dice che non era presente al momento del fatto, così l’operatrice chiede di passarle il padre. La presenza del padre era imponente in quella famiglia, ma non venne chiamato come richiesto dall’operatrice, venne chiamata invece la madre Maria Pezzillo che prima dice che Marco si stesse facendo un bagno nella vasca e poi attacca dicendo che non ci fosse più bisogno.

I minuti passano, Marco ha una grave emorragia interna. Le sue urla vengono ascoltate dai vicini.
«Marco gridava di dolore, e diceva “scusa Marty, scusa”» dichiara una sua vicina.
Perché, un ragazzo, vittima di un colpo di arma da fuoco, mentre sta perdendo sangue, mentre dolori impensabili attraversano il suo corpo, avrebbe dovuto chiedere scusa alla sua ragazza?

Alle 00.06 Antonio Ciontoli, finalmente, effettua la seconda chiamata al 118.
«Ho bisogno di un’ambulanza a Via Alcide De Gasperi. Un infortunio in vasca. (…) È caduto e si è bucato un pochino con il pettino a punta». Perché nominare il pettine a punta? Cosa è stato fatto con quel pettine a punta? Ancora una volta vi si chiede di tenere a mente questo particolare. «Si è bucato sul braccio, e si è messo paura». La conversazione viene interrotta dalla voce di Marco. Marco dice: «Ti prego basta!» Perché Marco urlava basta? Che cosa gli stavano facendo in quella casa? È forse collegato al pettine a punta nominato prima da Antonio Ciontoli?
Marco continua a lamentarsi, con una voce fioca, sbiascicando, tanto che l’operatrice del 118 chiede se il ragazzo ferito sia diversamente abile. Poi un altro urlo interrompe Antonio, è nuovamente Marco che urla con tutta la voce che ha in corpo «Ti prego!» una voce femminile dice cercando di tranquillizzarlo: «Basta, basta» e Marco di nuovo «Ti prego, scusa ». Secondo le ricostruzioni, dall’audio della chiamata al 118, elaborata dai tecnici dell’Emme Team in quell’esatto momento Marco avrebbe chiesto a Martina di portargli il telefono, ma nessuno ha ascoltato le sue richieste. Infatti in quei 110 minuti in cui la famiglia Ciontoli ha detto menzogne ai soccorritori, minuti che avrebbero salvato la vita a Marco, gli è stata tolta anche la possibilità di chiamare i suoi cari e quindi potergli dire la verità sull’accaduto.
«Marco si sarebbe potuto salvare»: è questa la frase che rimane come un macigno sul cuore di tutti.

Pochi giorni fa sono uscite le motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna a 14 anni per omicidio volontario e 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo in omicidio volontario per Martina Ciontoli, Federico Ciontoli e Maria Pezzillo (ndr. Viola Giorgini è stata assolta in primo grado nonostante la sua accertata presenza in quella casa come gli altri componenti della famiglia e le intercettazioni ambientali in cui diceva: «Vi ho parato il culo» ).

Le motivazioni certificano per la prima volta tutte le lacune delle indagini, come il mancato sequestro dell’abitazione. Si parla per la prima volta di scena del crimine alterata dai quattro imputati, di crudeltà nei confronti di Marco nei 110 minuti prima dell’arrivo dei soccorsi. Si evidenziano tutte le occasioni di mendacio in cui sono incorsi gli stessi imputati sia durante il fatto che successivamente, durante il processo.

Questa sentenza ha riportato i genitori di Marco a sorridere dopo anni di agonia, a sperare di avere un po’ di giustizia, perché «la verità su ciò che è successo quella notte è stata seppellita insieme a Marco, i Ciontoli non la racconteranno mai».

La battaglia non è ancora finita, è rimasto l’ultimo step, la Cassazione.
Intanto sui volti dei suoi genitori un sorriso amaro, consapevole che nessuno potrà mai restituire loro un figlio, ma finalmente Mamma Marina ha potuto portare sulla tomba di Marco i fiori che gli aveva promesso 2026 giorni fa.