L’uomo a una dimensione: la visione della società di Herbert Marcuse

«Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico».

Così scriveva Herbert Marcuse, nel 1964,nel suo celebre saggio «L’uomo a una dimensione», opera divenuta poi uno dei tanti manifesti ideologici del movimento studentesco transnazionale del ’68.

L’uomo ad una dimensione è tale in quanto, nel suo vivere integrato nella moderna società industrializzata, viene emarginata la possibilità di esteriorizzare la molteplicità del proprio essere interiore in modo drastico. Questa negazione avviene sotto forma di una rinuncia inconsapevole e ingenua che viene resa possibile grazie alle illusorie libertà di cui può godere l’individuo e delle quali l’intera società si rende garante. Libertà che hanno la mera funzionalità di «ammansire» l’uomo che vive in una collettività in cui la cosiddetta «civiltà del consumo» ha affermato la propria supremazia in campo ideologico.

Si tratta di concessioni che possono essere definite libertà amministrate e indotte, che mirano unicamente alla graduale istituzionalizzazione e alla quasi totale mercificazione delle esigenze e dei desideri individuali. È proprio grazie all’illusione di una libertà fittizia, creata appunto da tale permissivismo, che l’uomo moderno accondiscende a ridursi a mero strumento atto esclusivamente alla massimizzazione della prestazione produttiva. Ciò che sfugge ulteriormente alla concezione della realtà dell’individuo distratto, inserito nel contesto sociale e conscio o inconscio seguace dell’ideologia predominante, è il fatto di aver assoggettato le proprie passioni e i propri slanci istintivi ad un sistema omologante e repressivo.

Infatti, la società consumistica moderna crea, secondo Marcuse, nuovi «superflui» bisogni, che col tempo rendono l’uomo dipendente da essi asservendolo in tal modo al modello culturale ed istituzionale vigente.
Si tratta dunque di una manipolazione dei bisogni dei singoli da parte di una fazione che detiene le redini del potere e che ha come fine ultimo quello di incanalare e conformare i bisogni della collettività creando appunto nuovi bisogni che, pur non essendo delle necessità, vengono percepiti come tali dall’individuo.

La società viene, in qualche modo, «educata al consumo», sconsiderato e inessenziale. Questo fenomeno è, scrive Marcuse, favorito in maniera massiccia dall’avvento della tecnologia e dei mezzi di comunicazione, mezzi che inducono l’uomo ad instaurare un involontario ma irreprimibile legame di interdipendenza con essi, favorendo quel fenomeno che si può definire la fabbrica dell’opinione e del consenso.

L’individuo rinuncia dunque all’utilizzo delle proprie facoltà immaginative annientando quell’impulso liberatorio insito nella propria natura ed accontentandosi di un’esistenza orizzontale, nonché «uni-dimensionale».
Occorre pertanto recidere le catene che legano l’individuo ad una società che, per mezzo di istanze vincolanti e repressive, mira ad inibire gli impulsi creativi dell’uomo, sostituendoli con godimenti ingannevoli ed effimeri.

Per porre fine a tale realtà, Marcuse individua le forze propulsive capaci di tradurre in azione la volontà della progressiva liberazione umana nelle schiere dei «reietti, degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati (..)», la cui «opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. Perciò la loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; e una forza elementare che viola la regola del gioco, e cosi facendo mostra che è un gioco truccato».

Quindi, è solo tramite l’agire simultaneo e la fusione delle energie di «correnti dissidenti» e non integrate nel processo sociale che la rivoluzione idealistica propugnata da Marcuse può trovare adempimento nella realtà, rivoluzione che. in ultima istanza, consiste nella liberazione dell’uomo tramite la riscoperta e nella completa rivalutazione della preziosa molteplicità dell’essere che caratterizza la dimensione umana.