Trame e frame d’emergenza: deroghe in nome del «Fate presto!»

Nell’emergenza sembra non esserci tempo per interrogarsi, sembra non esserci tempo per giustificare all’elettorato i provvedimenti messi in atto. Perché l’emergenza richiede una reazione immediata nell’auspicio di poter arrivare, nel minor tempo possibile, alla risoluzione della problematica. Ne consegue la deroga alla prassi in nome del «Fate presto!».

Concentrando l’attenzione esclusivamente sulla metodologia di governo ormai consolidatasi in Italia, pur volendola depurare dall’emergenza attuale, negli anni abbiamo osservato un rovesciamento dei poteri: se costituzionalmente il potere legislativo spetta ai rappresentanti del popolo eletti nell’assemblea parlamentare, al governo spetta il compito di guidare la comunità nazionale dando esecuzione alle volontà espresse dal parlamento cui è vincolato da un patto fiduciario. Ebbene, è ormai da decenni che le leggi di iniziativa parlamentare approvate nell’arco di una legislatura si contano abbondantemente sulle dita di una mano. Questo ribaltamento è dovuto all’esautorazione subita dall’assemblea a vantaggio di una produzione legislativa di tipo governativo, più rapida e incline alla ricezione di direttive sovraordinate, mediante la cosiddetta legislazione d’urgenza.

Questo è un fatto consolidato, ben conosciuto da chi segue un minimo i dibattiti parlamentari. Tutti i partiti attualmente presenti in Parlamento tendono a lamentare questa deriva dall’opposizione, salvo poi, una volta giunti in maggioranza a supporto di un governo amico, agire in continuità col modello (l’ultimo caso del Movimento 5 Stelle aggiunge un punto all’argomento). La produzione legislativa che ne deriva è ipertrofica e confusionaria, con plurimi decreti a correzione di iniziali errori: emblematico il caso dei dodici (dodici!) decreti salva-Ilva. Conseguentemente, una volta reso prassi il metodo emergenziale, esso diventa uno strumento d’azione per sconvolgere gli equilibri pregressi.

L’emergenza spalanca le porte alla radicalità che, una volta instauratasi, genera il bisogno di credere fideisticamente in coloro che prendono il controllo delle operazioni. Quest’ultimi, si fanno eco spinti dai mainstream media che esclamano in coro «È un bel direttore!». Si è detto prima: se nell’emergenza non c’è tempo per interrogarsi e dibattere, allora all’elettorato non resta che avere fede nei salvatori. A quel punto non si parla più di un rapporto di fiducia (mediato dai rappresentanti), ma di un assegno in bianco.

Ecco che l’emergenza si amplifica a qualsiasi ambito, giustificando l’adozione di riforme che smantellano i capisaldi di una società. Potremmo riassumere la dinamica col famoso «O mangi questa minestra o salti dalla finestra». Nella maggior parte dei casi si sceglie di buttarla giù un cucchiaio alla volta, ma questa minestra tende a non avere fondo: non funziona? Ci vuole più … (riempimento a piacimento del lettore). La reiterazione è politicamente funzionale alla necessità periodica di spostare nel tempo la raccolta dei frutti sull’investimento effettuato. Tale investimento, non potendo produrre i frutti promessi, deve necessariamente trovare sfogo in una comunicazione favolistica le cui giustificazioni non siano verificabili a posteriori: per rifarci a un tema emergenziale conosciuto, chissà che brutta fine avrebbe fatto l’Italietta della liretta!

Quelli proposti sono frame consolidatisi nel tempo, teoricamente ben leggibili da una società che, come la nostra, ha fatto dell’emergenza un metodo di governo. In particolare, la negoziazione che tenta di subordinare porzioni di libertà in cambio della sicurezza è attualmente vivissima. L’auspicio, più sperato che altro, è che risultino sempre più intuibili.