Come il fascismo raccontava la vita del Duce

La Storia, almeno a livello superficiale, fa sopravvivere la memoria dei personaggi centrali, mentre i loro biografi e quelli dei loro parenti spariscono nel vortice del tempo. Così è successo con Benito Mussolini: se tutti sappiamo, dalla storiografia ufficiale, quello che ha fatto, di solito ci viene taciuto – anche perché relativo a un interesse più profondo di quello che si esige sui banchi di scuola – chi furono e cosa fecero (secondo i biografi del tempo) i suoi parenti. Vi parliamo oggi del padre Alessandro, che «fu buono e qualche volta eccessivamente altruista», che «fece del bene a compagni e avversari. Ebbe un’esistenza sotto molti rapporti tormentata» e «la sua fine è stata immatura».
Cosa ci ha lasciato quindi, secondo Olindo Giacobbe (La vita di Benito Mussolini, 1926), il padre del Duce? «Di beni materiali non ci ha lasciato nulla; di beni morali ci ha lasciato un tesoro: l’Idea». Anche grazie al padre, l’infanzia del «piccolo Benito» fu «un’allegra ubbriacatura (sic) di libertà e di sole», durante la quale il futuro Duce imparò che «il lavoro e il sapere sono le due grandi forze che ci permettono di farci strada nella vita».
Un salto in avanti di 60 pagine e qualche decennio per arrivare all’autunno 1920, quando «i comunisti, commettendo sopraffazioni e imbrogli, sono riusciti vittoriosi nelle elezioni amministrative di Bologna». Stiamo parlando dell’evento che è passato alla storia come Strage di Palazzo d’Accursio, quando le squadre d’azione risposero a una bandiera rossa fatta sventolare dalla Torre degli Asinelli. I fascisti tentarono di forzare il cordone predisposto dalla Guardia Regia intorno a Piazza Nettuno ed a Piazza Maggiore sparando i primi colpi di arma da fuoco: la grande massa dei presenti, presa dal panico, si diresse verso l’arco che dava accesso al cortile del Palazzo, ma la Guardie Rosse, temendo un assalto in massa da parte degli squadristi, chiusero il grande portone. Quel giorno morì il consigliere liberale Giulio Giordani, considerato il «primo martire fascista». Ovviamente nel volume di Olindo Giacobbe la vicenda è narrata in modo «lievemente» diverso: «I fascisti si limitano a invitare la parte sana della popolazione a esporre il tricolore dalla finestra e ad assistere alla sconcia carnevalata (i festeggiamenti dei comunisti, ndr)».
E il Duce a vent’anni che combinava? «Dall’alba al tramonto, cammina e cammina, e sempre ha dinanzi la stessa strada che si prolunga all’infinito, monotona e eguale. Non un pezzo di pane per calmare gli stimoli della fame, e va e va, stanco e impolverato, mentre il cielo sempre più s’oscura, e l’aria pungente dei monti lo fa rabbrividire di freddo». Questo Mussolini, «solo e abbandonato come un reietto della vita», stoicamente sopravvive a ogni miseria ma un giorno avrà la sua rivalsa perché su di lui «un giorno si affiseranno gli sguardi di tutto il mondo con ammirazione e con invidia». Giunse così giovanissimo a Losanna, ma il viaggio fu davvero drammatico perché «su lui non scese il sonno ristoratore, ma l’incubo orrendo che opprime e dilania il corpo e lo spirito nell’immobilità della stanchezza e del dolore». Ad attanagliarlo «il pensiero del babbo chiuso in carcere e della mamma che forse a quell’ora si stringeva perdutamente al seno i due figli vicini nella casa vuota e deserta». Dell’esperienza svizzera Olindo Giacobbe porta a testimonianza un autografo del futuro Duce: una firma «tracciata da Mussolini con mano appesantita dalle rudi fatiche».
La vita di Benito Mussolini è un documento importante perché mostra, più che una cronaca veritiera e dettagliata della vita del Duce, su quali punti il regime puntava per l’esaltazione dell’uomo solo al comando. La fatica, gli stenti, le difficoltà economiche, il duro lavoro dovevano essere un esempio da seguire per tutti gli italiani, un importante testimonianza morale per condurli sulla retta via.