Gli italiani sono veri sportivi o passivi tifosi da divano?

Il 2021, dopo i mesi iniziali di chiusure alternate e discontinue, si è finalmente aperto allo sport.
Nonostante il panico corrente, la diffidenza e l’incertezza, sotto il segno di questa roventissima estate abbiamo celebrato il grande ritorno dei Campionati Europei di Calcio e l’atteso avvio dei Giochi Olimpici di Tokyo.
La finale Italia-Inghilterra, commentata e raccontata su Rai Uno, è stata seguita mediamente da almeno 17 milioni di italiani, dato pari al 73,7% di share e, durante i calci di rigore, sono stati registrati picchi fino all’80%.
La partita decisiva per le sorti della nazionale azzurra è diventata, infatti, il 27esimo evento televisivo trasmesso in Italia più seguito di tutti i tempi.
Le Olimpiadi, invece, vetrina quadriennale dei cosiddetti sport minori, raccoglie un numero sensibilmente inferiore di telespettatori, ma costituisce, comunque, un’importante occasione di intrattenimento popolare.
I Giochi di Rio 2016, ad esempio, resero cinque anni fa Rai 2, la rete olimpica del servizio pubblico, il canale più seguito sia nell’intera giornata che nel prime time, capace di attirare il 15,6% di share giornalieri, sì da generare l’esplosione delle visualizzazioni streaming sulle app Rai e delle interazioni social tra Twitter e Facebook.
Insomma, nell’era in cui si espandono e moltiplicano le occasioni di seguire lo sport a distanza, in cui si assottigliano le opportunità di assistere dal vivo alle competizioni, agli italiani piace guardare lo sport, soprattutto se espresso dai suoi protagonisti attivi in una dimensione trionfale.

La pletora di tifosi italiani che partecipano virtualmente all’entusiasmo agonistico costituisce, pertanto, ancora oggi una preziosa miniera, diretta a cibare l’industria dello spettacolo sportivo.
Quanti, però, tra gli italiani, possono considerarsi non solo semplici consumatori dello sport, ma anche attori dello sport?

Il primo dato da analizzare, non del tutto confortante, proviene dall’Annuario Statistico Italiano 2020 dell’ISTAT, il quale ha rilevato che nel 2019 il 35,0% della popolazione con più di 3 anni di età ha praticato almeno uno sport nel tempo libero (nel 2017 la quota dei praticanti era pari al 34,3%), mentre gli italiani che hanno dichiarato di svolgere una mera attività fisica sono il 29,4% , sicché ben il 35,6% degli italiani sono da annoverare tra i sedentari.
Si tratta di numeri che, seppur in progressivo miglioramento dal 1995, collocano l’Italia, come altri paesi del mezzogiorno continentale, in ritardo rispetto alla media europea dei praticanti, individuata nel dicembre 2017 da Eurobarometro in una percentuale che si aggira intorno al 40%.
Peggio del Belpaese solo Romania, Portogallo, Grecia e Bulgaria.
Al contrario appaiono irraggiungibili i risultati conseguiti dal Nord Europa:
comandano la classifica UE Finlandia (69%), Svezia (67%) e Danimarca (63%).

Il magro bottino italiano di praticanti sportivi, stabile intorno a 20 milioni di persone, appare ancora meno brillante, se poniamo attenzione alla sua distribuzione.
Emerge, innanzitutto, che la pratica sportiva costituisce un’attività prevalentemente maschile, mentre la sedentarietà è perlopiù un attributo femminile: il 31,2% degli uomini pratica uno sport con continuità contro il 22,2% delle donne.
Tale differenza di genere si respira anche in seno al movimento sportivo federale italiano, il quale, composto nel 2017 da 4 milioni e 703 mila atleti tesserati, contava una percentuale di donne pari solo al 28,2%.
Nuove disuguaglianze si riscontrano, poi, sul piano della distribuzione territoriale.
Nelle regioni settentrionali, infatti, si assiste a livelli più elevati di svolgimento di sport in modo continuativo:
le Province Autonome di Bolzano (42,4%) e di Trento (33,7%) trainano lo Stivale, mentre Calabria (16.5%) e Sicilia (18.2%) sono le più deboli tra le regioni italiane.

Ad aggravare il quadro, già profondamente solcato da gravi disparità, si aggiunge il fatto che la pratica sportiva continua a configurarsi come occupazione tipicamente giovanile: i livelli più elevati di praticanti si registrano nella popolazione maschile di 6-10 anni (61,9%), mentre, al graduale progredire dell’età, si accompagna un declino inesorabile, finché, a partire dai 75 anni, il 67,5% degli intervistati dichiara di non effettuare alcuna attività fisica.
Ulteriori fattori di disuguaglianza sono la condizione economica del soggetto intervistato e il titolo di studio ottenuto: i massimi livelli si registrano tra i soggetti laureati che esercitano la libera professione o l’attività di manager.
Ad influire, inoltre, come barriere allo svolgimento della pratica sportiva sono, in ordine decrescente: la mancanza di tempo, la mancanza di motivazione o interesse, la non competitività, il costo elevato e, infine, la malattia e disabilità.

L’italiano medio, dunque, è una figura mitologica, metà uomo e metà divano che vive per lo più un’esistenza sedentaria, allietata, al più, dalla tifoseria sportiva comoda, condotta da casa, con l’ausilio della tv e delle sempre più diffuse piattaforme streaming.
L’Olimpiade degli spettatori non basta a ravvivare la qualità della vita, anzi è un fenomeno allarmante: chi rimane sedentario per un periodo di 20 anni presenta una probabilità doppia di morire per qualunque causa, una probabilità tripla di morire per malattie cardiovascolari.