«Il Corvo 2»: il testo integrale dell’anonimo del 1992

Un’importante premessa: se per altri aspetti la ricostruzione che state per leggere è non dimostrata, nel caso di Calogero Mannino è del tutto falsa. Il diretto interessato, infatti, è uscito vittorioso da alcuni procedimenti riguardanti la sua menzione nell’anonimo chiamato «Corvo 2».  

Per tutti gli altri protagonisti, si tratta comunque di ricostruzioni senza prove. Quello che trovate qui sotto è il «Corvo 2», un anonimo arrivato a tg, giornali e procure nel giugno 1992 il cui contenuto non va preso per vero. A noi interessa cercare di capire il motivo per cui chi l’ha scritto ha deciso di puntare l’attenzione dell’informazione e della giustizia su alcuni personaggi e il motivo per cui questo fantomatico autore è a conoscenza di alcuni dettagli non di dominio pubblico, anzi. 

Questa lettera, quasi un cahier de doléance, è indirizzata a tutti coloro che possono, secondo il nostro giudizio, svolgere un’azione positiva per scoprire finalmente tante tristi verità, per fare giustizia e per salvare infine questo paese dalla barbarie verso cui sprofonda ormai precipitosamente. Essi sono:

  1. On. Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica;
  2. On. Giovanni Galloni, Vice Presidente del Csm;
  3. On. Giovanni Spadolini, Presidente del Senato;
  4. On. Giorgio Napolitano, Presidente della Camera dei Deputati;
  5. On. Renato Altissimo, segretario del Pli;
  6. On. Leoluca Orlando, responsabile della Rete;
  7. On. Gianfranco Miglio, «ideologo» della Lega lombarda;
  8. On. Gianfranco Fini, segretario del Movimento sociale Italiano;
  9. On. Alfredo Biondi, Vice Presidente della Camera dei Deputati;
  10. Tutti i Capigruppo della Camera e del Senato, sebbene nutriamo dubbi sulla buona volontà di alcuni di loro;
  11. Dottor Indro Montanelli, direttore del «Giornale»;
  12. Direttore de «Il Corriere della Sera»;
  13. Direttore de «La Stampa»;
  14. Direttore de «La Gazzetta del Sud»;
  15. Direttore de «Il Tempo»;
  16. Dottor Emilio Fede, direttore di «Studio Aperto»;
  17. Dottor Enrico Mentana, direttore di TG5;
  18. Dottor Vincenzo Geraci, sostituto procuratore presso la Corte di Cassazione;
  19. Dottor Vittorio Teresi, sostituto procuratore del tribunale di Palermo;
  20. Dottor Paolo Borsellino, procuratore della Repubblica;
  21. Dottor Giammanco, procuratore capo della procura distrettuale;
  22. Dottor Aliquò, sostituto procuratore;
  23. Dottor Carrara, sostituto procuratore;
  24. Dottor Eugenio Scalfari, direttore de «La Repubblica»;
  25. Dottor Carnevale, presidente della 4° sezione della Corte di Cassazione;
  26. Dottor Raimondo Cerami, giudice di sorveglianza;
  27. On. Leanza, Presidente della regione siciliana:
  28. Agenzia stampa Ansa;
  29. Agenzia stampa Italia;
  30. Nucleo investigativo carabinieri di Palermo;
  31. Capo della squadra mobile di Palermo;
  32. Dottor Mario Iovine, prefetto di Palermo;
  33. Dottor Alberto Di Pisa, sostituto procuratore;
  34. Nucleo operativo della Guardia di finanza;
  35. Redazione de «L’Espresso»;
  36. Redazione di «Panorama»;
  37. Dottor Feltri, direttore de «L’Indipendente»;
  38. Redazione de «L’Europeo»;
  39. Dottor Celesti, procuratore della Repubblica;

Nel mese di febbraio del 1992 era già stata stabilita la data delle elezioni politiche per il rinnovo del Parlamento. Numerosi sondaggi, ma anche solo il buonsenso, davano per scontato che la Democrazia Cristiana nel Nord e in parte del Centro sarebbe scesa a meno del 20 per cento dei suffragi, mentre avrebbe conservato e forse migliorato le sue posizioni nel Sud e in Sicilia in particolare. Già il 6 aprile, all’apertura delle urne, tale previsione veniva confermata abbondantemente. 

Con notevole lungimiranza alcuni uomini politici democristiani già in febbraio avevano organizzato la loro strategia in vista di tale risultato, muovendo i loro passi dalla considerazione che comunque la Democrazia Cristiana avrebbe conservato la maggioranza relativa e che al suo interno il potere sarebbe andato a quel gruppo che avrebbe controllato la forza elettorale e organizzativa del Sud. 

In campo, come capisaldi da conquistare, c’erano alcuni ministeri e forse, con un po’ di fortuna, qualcosa di più. Restando i rapporti di forza quali erano al momento dell’elezione di Forlani alla segreteria politica, la Presidenza della Repubblica sarebbe andata a quel democristiano che all’interno della Democrazia Cristiana avrebbe potuto contare sull’alleanza del “Grande centro” di Gava, e su un seguito personale distribuito su tutto il territorio italiano. Era evidente che quest’uomo aveva un nome ben preciso: Giulio Andreotti. 

Bisognava colpirlo. Troppo coriaceo per restare vittima d’un qualunque tentativo di delegittimarlo con accuse infamanti, che anzi in passato avevano finito per rafforzarlo, occorreva indebolirlo togliendogli l’appoggio di alcuni suoi proconsoli. L’attenzione del nuovo gruppo si rivolge a due dei migliori amici di Andreotti: Lima e Sbardella. Erano ritenuti i migliori, non tanto per intelligenza e acume politico, quanto per la loro rozza furbizia, che usavano abilmente per controllare quel certo elettorato clientelare, poco propenso alle scelte ideali e ai sommovimenti d’animo sulla scia di questioni morali e perciò abbarbicato a laidi satrapi senza altro principio che il tornaconto materiale proprio e dei propri “amici”. 

L’operazione riesce pienamente con Sbardella, che forse non aspettava altro. Più difficile, invece, si presenta il caso Lima. La sua fedeltà al capocorrente si dimostra di tutta prova. A nulla valgono le lusinghe. Egli rimane tanto fedele, che finisce con il riferire tutto ad Andreotti, che cerca di correre ai ripari. Non gli riesce però di guadagnare tempo, rinviando le elezioni alla scadenza naturale della legislatura. Il breve tempo della campagna elettorale non è sufficiente per una delle sue diaboliche manovre, per cui non gli rimane altra soluzione che lo scontro frontale, in cui deve utilizzare le sue forze al massimo delle loro possibilità. Rasentando o superando ogni limite legale, se necessario.

In due riunioni dei suoi proconsoli vengono impartite le necessarie istruzioni, che prevedono il massimo impegno di tutte le autorità dello Stato rappresentate da uomini del gruppo e controllate nelle sedi locali dai proconsoli andreottiani. Quest’opera di richiamo all’impegno ricade, per la Sicilia, su Lima, che convoca direttamente o per mezzo di amici ritenuti fidati magistrati, imprenditori, funzionari di polizia, responsabili di istituti di credito, giornalisti, capi elettori, boss della mafia latitanti e non. Proprio nel caso dei boss latitanti Lima si trova di fronte alla inaspettata novità di non ricevere obbedienza. Nel caso dei corleonesi il no è ancora più clamoroso, perché costoro si rifiutano persino di incontrarlo, adducendo la motivazione che glielo impediscono ragioni di sicurezza. Un fatto mai accaduto in passato, che allarma Lima, ma non a sufficienza da fargli sospettare che cosa veramente stia dietro quel rifiuto.

Torniamo un attimo a quel gruppo che tenta la scalata al potere, sfruttando il successo democristiano nel Meridione. Esso è composto da: De Mita, Mattarella e Mannino all’interno della Sinistra; da Gava e Scotti all’interno della corrente Azione Popolare; da Riggio all’interno del Patto referendario. Gli accordi prevedono che, in caso di sconfitta del gruppo andreottiano, tutti appoggeranno Gava alla segreteria, mentre alcuni Ministeri-chiave per la strategia del gruppo sarebbero stati assegnati come segue: Mannino all’Interno, Riggio all’Industria o agli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, Scotti alla Difesa o alla Giustizia. Altri accordi prevedono la crisi regionale alla regione siciliana e al comune di Palermo, per sostituire negli incarichi esecutivi gli amici del nuovo gruppo trasversale ai limiani. 

Forti di questi accordi, Mannino e Mattarella si lanciano alla conquista del feudo andreottiano in Sicilia e cominciano proprio laddove la forza di Lima sembra più inattaccabile: la mafia. I due esponenti democristiani si dividono l’impegno, dedicandosi ognuno a un settore dei due nei quali si divide la mafia: quello dei colletti bianchi e quello del braccio armato. 

Mattarella incontra e tratta con il suo vecchio compagno di studio Cassina, al quale assicura il suo personale intervento per salvare definitivamente il suo gruppo imprenditoriale dal fallimento, a condizione che egli si impegni a sua volta a garantire i capitali investitivi dai corleonesi dopo il suo sequestro del 1972. Il Cassina si impegna in tal senso e assicura pure di essere pronto a continuare la collaborazione finanziaria con i corleonesi nel caso in cui alle imprese del suo gruppo dovessero essere assicurati futuri appalti. Pone una sola condizione: di essere liberato dal ricatto di Lima, che ha controllato un quarantennio di rapporti del gruppo Cassina con l’amministrazione pubblica e ha perciò strumenti sufficienti per rovinarlo giudiziariamente. Per non dire del controllo che egli esercita sulla Cassa di risparmio per mezzo del suo presidente Giovanni Ferraro e del dottor Emanuele, che presto ne sarà il vicedirettore generale, e nei confronti della quale il gruppo Cassina risulta esposto per circa 400 miliardi, il cui pagamenti è stato procrastinato grazie a un rifinanziamento della Cassa da parte della regione per appunto 400 miliardi di lire. Il Cassina offre infine l’appoggio incondizionato del «Giornale di Sicilia», della cui società editrice è socio fin da tempi del suo aumento di capitale organizzato dallo studio Bcc di via Siracusa, di cui sono titolari Battaglia, Cassina e Cosenz. Le azioni Cassina sono state intestate a dipendenti dello stesso studio. 

Altri incontri tra il Mattarella e simili imprenditori avvengono nello studio degli avvocati Noto-Sardegna e in quello dell’avvocato Equizzi. Quasi sempre vi partecipa il professor Parlato, notoriamente il consigliori di tali imprenditori per gli aspetti fiscali della loro attività. Lo si definisce consigliori e non consigliere, perché le sue prestazioni professionali si limitano all’attività di tramite per il pagamento di tangenti a funzionari dell’amministrazione fiscale perché chiudano uno o entrambi gli occhi e deliberino e sentenzino in senso favorevole ai suoi clienti. 

Non si citano altri incontri o fatti, perché essi sono facilmente riscontrabili con attente indagini delle autorità giudiziarie. 

Altrettanto interessante è l’attività svolta dal ministro Mannino, che si serve per i suoi incontri di tale Piero Di Miceli, noto nella Palermo che conta per le sue amicizie e la sua potenza. Egli è infatti cognato del capo di gabinetto dell’Alto Commissario per la lotta contro la mafia Finocchiaro, amico personale di molti magistrati, soprattutto della sezione fallimentare, legato ai servizi segreti e soprattutto a Riina, al quale in passato ha prestato una propria autovettura coperta da immunità diplomatica, perché egli potesse spostarsi senza pericolo nonostante la sua condizione di latitanza. 

Il Di Miceli procura al Mannino un incontro con Riina, avvenuto nella sacrestia di una chiesa di San Giuseppe Jato. Tale incontro, quantomeno come data e luogo, risulta sicuramente agli uomini di scorta del Ministro, perciò non ci si dilunga in particolari. Il Riina si dice interessato alle proposte del Ministro, ma si riserva di dargli una risposta dopo aver parlato con altri «amici». La risposta arriva due giorni dopo, quando viene fissato un nuovo incontro, che viene tenuto in una giornata di domenica presso la stessa abitazione del Ministro. Vi partecipano il Di Miceli, Riina e, ovviamente, lo stesso Ministro. Di quanto vi si discusse si sa soltanto quanto lo stesso Riina ebbe a riferire al proprio consigliori Giuseppe Mandalari, che ne informò alcuni dei suoi amici massoni. Il Ministro chiese una fattiva collaborazione di tutta mafia controllata dai corleonesi nella campagna elettorale e soprattutto il rientro in casa DC di tutti quei voti che nelle elezioni politiche dell’87 e in quelle regionali del ’91 erano andati al PSI in base agli accordi raggiunti fra alcuni suoi gregari e gli onorevoli Martelli e Lombardo. All’interno della Democrazia cristiana tali voti dovevano poi riversarsi sui candidati segnalati dallo stesso Mannino. In cambio egli, anche a nome dei suoi «amici», offriva: 1) la prospettiva a medio termine della possibilità per i più importanti latitanti di regolarizzare la loro posizione; 2) la garanzia di riprendere anche ufficialmente il controllo delle loro grandi ricchezze; 3) la possibilità d’inserirsi con proprie imprese nei prossimi grandi appalti da gestire in Sicilia. Il Riina precisava che su quest’ultimo punto aveva fatto delle promesse lo stesso Lima ed era sul punto di mantenere gli impegni assunti grazie ai contatti presi con l’impresa «Tor di Valle», quando un’indagine giudiziaria dei carabinieri portò all’arresto del responsabile della suddetta impresa e a quello di alcuni imprenditori amici dei corleonesi. Mannino spiegò che dovevano aspettarselo, perché Lima e Andreotti erano ormai bruciati e precisò che proprio di loro si parlava nel rapporto dei carabinieri. Una soluzione del problema del reinserimento dei latitanti nella società civile doveva pertanto passare per la scomparsa di Lima, anche fisicamente. «Non c’è problema», affermò il Riina. Impegnatosi in tal senso, chiese maggiori spiegazioni sulle modalità del reinserimento suo e dei suoi amici. Esso prevedeva, come spiegò il Ministro, due tempi: sull’onda della protesta civile, sarebbero state approvate alcune leggi speciali, una delle quali avrebbe previsto l’immunità a quei pentiti della mafia, che avrebbero consentito l’ottenimento di clamorosi successi alle forze di polizia. Contemporaneamente lo stesso Riina e i più importanti latitanti del suo gruppo si sarebbero fatti arrestare, consentendo agli uomini nuovi della Democrazia cristiana di presentarsi di fronte all’opinione pubblica come i vincitori del fenomeno mafioso. In nome di tale vittoria essi avrebbero chiesto e ottenuto in elezioni anticipate il meritato premio, che avrebbe loro consentito di governare per almeno i prossimi vent’anni, con tutti i vantaggi che un prevedibile controllo assoluto delle maggioranze parlamentari avrebbe comportato.

Secondo la fonte Riina accetta l’accordo anche a nome dei catanesi di Santapaola e della mafia dell’agrigentino, sulla quale comunque il Ministro dichiarò di contare già insieme a quella trapanese.

L’omicidio Lima fu compiuto da sicari convocati appositamente in Sicilia dal Provenzano, braccio destro più che socio del Riina. Uno di essi veniva dalla Toscana, mentre nulla si sa circa la provenienza dell’altro. Essi rimasero a Palermo nei tre giorni precedenti l’assassinio e se ne ripartirono dieci giorni dopo. Per tutto questo tempo furono ospitati in una abitazione di San Lorenzo, ospiti di amici di Mariano Troia, uomo di spicco della mafia di San Lorenzo.

Fino a questo punto tutto procede secondo i piani. Le cose sembrano compromesse quando Andreotti trova in Craxi e Martelli gli alleati per fermare l’avanzata dei suoi rivali. L’alleanza nasce non soltanto per creare una sinergia che meglio spiani la strada verso i rispettivi traguardi, ma anche dalla considerazione che l’uno e gli altri sono le vittime dello stesso gioco, in quanto entrambi in Sicilia hanno perso riferimenti sicuri e vantaggiosi. Decidono di servirsi di Falcone, al quale fanno credere di concedere il loro appoggio per colpire finalmente quella mafia politica, alla quale fino a quel momento i giudici non avevano potuto rivolgere altra accusa che d’essere «contigua». Falcone si mette subito al lavoro e non aspetta neppure quella Superprocura, per la quale altri si battono perché venga affidata a lui. Ma Roma non è Palermo e i suoi strumenti non sono più le squadre mobili e i nuclei operativi, dove bene o male si trovava sempre qualche amico fidato, ma sono dirigenti e funzionari ministeriali, il superpoliticizzato Alto Commissario, un capo della polizia abituato ormai a tenersi cari i protettori politici, alti ufficiali dei carabinieri con protettori sempre politici e così via. In tali condizioni perché meravigliarsi se il capo di gabinetto dell’Alto Commissario viene a conoscenza dei disegni di Falcone e li comunica subito al congiunto Di Miceli? Se proprio a questi comunica che Falcone, quel Falcone che il Di Miceli credeva d’avere abbindolato quando a Palermo gli si mostrava amico, aveva intenzione di muovere le sue prossime indagini proprio sulla sua attività, con particolare riferimento a una costituenda società internazionale per la gestione di capitali per milioni di dollari?

Prossimi al successo, agli uomini «nuovi» della politica democristiana non rimane che la soluzione estrema. Ma come fare? Su chi contare per un lavoro svolto bene? Lo stesso Riina, avvicinato dal Di Miceli, prende le distanze perché ritiene controproducente per la sua causa un simile omicidio e perché lo ritiene di quasi impossibile attuazione, almeno fino a quando Falcone gode della nota protezione. Non rimane che la soluzione «servizi». Chi e che cosa si nasconda sotto questo nome vada a Palermo in via Roma 457.

Noi non sappiamo più altro, se non la conclusione del tutto, che ha colpito gli animi degli uomini onesti. Le autorità giudiziarie potrebbero scoprire ogni cosa, se solo avessero la volontà e la capacità di cercare. A cominciare dal procuratore Giammanco, che da Lima fu informato in tempo di quel che temeva, per continuare poi con il giudice Tessitore, che proprio dal Di Miceli ha ricevuto 200 milioni per aiutare il costruttore Pilo nelle sue vicende giudiziarie e via via fino al giudice Pignatone, che tramite il fratello che lavora nello studio Parlato informava Duilio Cassina dì allontanarsi, perché doveva emettere un ordine di cattura nei suoi confronti. Dimenticavo: gli ispettori del ministro Martelli e le commissioni del CSM hanno trovato tutto a posto!

Questa lettera non vuole sostituirsi ai risultati di doverose e oneste indagini né vuole essere considerata una verità, spera soltanto che fra i destinatari vi sia qualcuno che ne utilizzi le indicazioni per porsi almeno la domanda: e se fosse vero?

Noi sappiamo che è tutto vero, altri dovranno scoprirlo. Se a scoprirlo saranno gli organi giudiziari, allora essi avranno reso al paese un servizio, per il quale saranno da considerarsi salvatori della patria.

Non ci firmiamo. Abbiamo riflettuto a lungo prima di deciderlo. Sarebbe stato assai facile a gente tanto potente delegittimarci, rendendo inutile il nostro tentativo di fermare un disegno diabolico, che ha già fatto morire un uomo e provocato una strage. Nè comunque potevamo fidarci di magistrati che di fronte a un rapporto di 900 pagine, con accuse circostanziate contro uomini politici, si limitano a ordinare l’arresto dei loro accoliti e non procedono contro di essi neppure con una miserabile informazione di garanzia.

A tutti i destinatari, fra i quali figurano gli stessi accusati, diciamo: iniuriam ipse facias ubi non vindices. E ormai non potete fingere di non sapere.

Allegata alla presente una elencazione di fatti su cui indagare. Indagini, accertamenti, indicazioni che si ritengono utili ai fini di dimostrare giudiziariamente vere le affermazioni della Nostra lettera:

1. accertare perché un lungo e pesante rapporto della Guardia di finanza sul Di Miceli è rimasto senza alcun seguito;

2. accertare l’attività svolta dal Di Miceli come collaboratore dell’ingegner Parisi e le sue responsabilità nel suo assassinio;

3. accertare il ruolo svolto dal Di Miceli nel fallimento Pilo, Virga, Cambino e nell’amministrazione dei beni di Aiello e Greco di Bagheria;

4. accertare i rapporti tra Cassina e Di Miceli, soprattutto in relazione alle esportazioni di capitali all’estero, gli appalti in Libia e le prestazioni del faccendiere Pazienza;

5. indagare sui mutamenti delle ragioni sociali e dei loro nuovi assetti in seno al gruppo Cassina in seguito alla liberazione del sequestrato Luciano Cassina;

6. indagare sulla situazione debitoria dello stesso gruppo nei confronti della Cassa di risparmio, risalendo ai rapporti tra Ferrano e Cassina provati dall’adesione dì quest’ultimo all’Ordine del Santo Sepolcro e dall’assunzione di un suo fratello presso l’Hotel Perla del Golfo, costruito da Cassina e dallo stesso gestito per circa due anni;

7. indagare sulle false certificazioni di lavori eseguiti in Libia e di false documentazioni creditizie nei confronti dello Stato libico, per godere di crediti agevolati presso il Banco di Sicilia;

8. indagare sulla geografia dei voti raccolti dal Partito socialista italiano nelle ultime elezioni regionali, con particolare riferimento alle preferenze raccolte da Vita Ganci, figlio del vecchio capomafia di San Giuseppe rato, e alla cordata con altri candidati socialisti;

9. ripetere la medesima indagine nelle stesse sezioni, per accertare come in esse i voti del Ganci sono passati alla Democrazia cristiana di Mannino e C.;

10. accertare che il fratello del pubblico ministero Pignatone lavora presso lo studio di Parlato;

11. indagare sull’aumento di capitale della editrice del «Giornale di Sicilia», con particolare riferimento all’intestazione delle quote sociali;

12. accertare i rapporti economici tra il caporedattore del “Giornale di Sicilia” e Cassina e Salvo;

13. accertare l’identità del capo di gabinetto dell’Alto Commissario;

14. accertare lo svolgimento della vicenda giudiziaria di Duilio Cassina, riferita nella lettera;

15. indagare sulla recente attività del Di Miceli e sui contatti da esso avuti con rappresentanti di altri paesi per assicurarsi appoggi alla costituenda società per il riciclaggio, sulla quale aveva cominciato a rivolgere la propria attenzione Falcone;

16. accertare i rapporti tra Di Miceli e il giudice Tessitore, Martelli, l’onorevole Turi Lombardo, Angelo Siino, l’ingegnere Catti, Mannino, Scotti (che Io ha voluto commissario della Sigma dí Libero Grassi), i servizi segreti;

17. indagare sulle società svizzere di Cassina e sui suoi rapporti con la cordata d’imprese che hanno ammesso di pagare tangenti a Milano;

18. indagare sulle modalità d’assegnazione al Consilfer dell’appalto concorso relativo al raddoppio della ferrovia Fiumetorto-Cefalù;

19. interrogare l’onorevole Purpura sulle notizie anticipategli da Lima la sera precedente il suo assassinio con particolare riferimento ai commenti sulla fedeltà di uomini del gruppo;

20. indagare sull’appalto della strada San Mauro Castelverde-Ganci, prima assegnato all’impresa Maniglia e poi di fatto all’impresa di Cataldo Farinella, con particolare riferimento al ruolo svoltovi in entrambi i casi dal boss maurino Giuseppe Farinella insieme a Lima e all’ex senatore Carollo;

21. controllare tutti indistintamente gli incarichi ricevuti da Di Miceli dai giudici della sezione fallimentare di Palermo;

22. accertare i rapporti che intercorrono tra il generale Viesti, comandante generale dell’Arma dei carabinieri, e il Di Miceli;

23. interrogare i responsabili della SAISEB romana sulle ragioni che li spinsero a cedere l’appalto della circonvallazione di Palermo a imprese del gruppo Cassina e sui retroscena relativi all’appalto per la ristrutturazione di Castello San Pietro;

24. indagare su tutti i finanziamenti decretati dall’onorevole Sciangula nella qualità di assessore regionale ai lavori pubblici;

25. indagare sui rapporti tra il giudice Lo Forte e l’onorevole Vizzini;

26. accertare il numero di nuove assunzioni presso le poste poco prima e durante la campagna elettorale del ’92;

27. accertare che una congiunta di Gava fu fermata dalla Guardia di finanza con 120 milioni di lire e un numero imprecisato di tagliandi del lotto clandestino e che fu poi rilasciata dietro pagamento di una multa di 700.000 lire grazie all’intervento di un alto dirigente della polizia che intervenne personalmente presso il colonnello comandante della Guardia di finanza;

28. rivedere gli interrogatori di Falcone a Luciano e Arturo Cassina relativi all’istruttoria del primo maxi-processo e chiedere ai pubblici ministeri Ayala e Signorina, nonché al presidente Giordano, come mai non li hanno obbligati entrambi a testimoniare in dibattimento;

29. riesaminare più onestamente il rapporto dei carabinieri contro Siino e altri.

L’elenco potrebbe continuare ma non faremmo che ripetere fatti che verranno sicuramente alla luce se si vorrà indagare con onestà e buona volontà più e meglio di quanto abbiamo potuto fare noi fino a questo momento.