Se il nostro capitalismo discendesse da Maometto?

«I prezzi dipendono dalla volontà di Allah; è Lui che li alza e li abbassa» (attribuita al profeta Maometto).
Spesso si identifica la modernità con l’Occidente capitalista, figlio prediletto del Settecento illuminista e dei suoi padrini intellettuali. E, sovente, si pone il 1776, anno della rivoluzione americana ma anche de La ricchezza delle nazioni, quale terminus a quo della nostra era. Ma davvero Adam Smith e i suoi epigoni inventarono dal nulla questa nuova ideologia? Oppure riutilizzarono alcuni precetti vecchi di secoli?
Partiamo da un paragone ardito: a cosa somigliano maggiormente le nostre borse? A un mercato austero e profondamente regolato come quello di una cittadina imperiale del ‘300 oppure a un ricco caravanserraglio beduino? Risulta difficile non associare anche solo la confusione di Wall Street a quella di un suq arabo. D’altronde sia nella New York odierna che nella Medina dell’ottavo secolo i mercanti costituiscono un ceto ammirato e rispettato, indiscusso protagonista nelle fiabe di ieri e nelle serie TV di oggi. E se il nostro capitalismo discendesse da Maometto?
L’Islam nacque tra le tribù itineranti dell’Arabia; alcune suggestive teorie sulla nascita del nomadismo riconducono questo fenomeno alla fuga dalle città di coloro che, essendosi indebitati, sarebbero finiti in schiavitù: alcuni col tempo diventarono pastori, altri mercanti. Tipico quindi di queste popolazioni sarebbe un’avversione contro un potere centrale forte, contro lo stato, ma anche un forte senso di identità, di fiducia nell’altro. Fu proprio la fiducia a permettere la nascita dei primi strumenti finanziari, le cambiali (sakk), in Arabia come in Europa qualche secolo più tardi. I mercanti ben presto divennero un punto di riferimento ideale per l’intera società araba, forti anche della legge islamica che, sebbene vietasse l’usura, considerava legittima e onorevole la ricerca del profitto. Tutto ciò accompagnato da una forte ostilità verso le regolamentazioni statali: d’altronde lo stesso Maometto era un mercante e quasi mai i califfi intervennero sui prezzi.
È difficile non immaginarsi un sottile filo rosso che leghi Adam Smith al Corano. Il padre del capitalismo era anche un teologo, e vedeva nella «mano invisibile» una personificazione della Divina Provvidenza. Gli esempi sullo scambio delle ossa tra cani e sulle operazioni necessarie a produrre un ago sono gli stessi usati da Ghazali e Tusi, giuristi della Persia medievale: infatti, pare che nella sua biblioteca ci fossero traduzioni latine di autori arabi. Tuttavia, mentre lo scozzese vedeva nel mercato il luogo della ricerca del profitto individuale, i giuristi persiani vi vedevano la manifestazione della società, un luogo dove si incontravano le abilità e le necessità degli individui.
Sembra, dunque, che la nostra modernità discenda da un mondo che ci sembra tanto lontano e diverso; e se allora c’è una cosa che le scienze storiche hanno da insegnarci è proprio indagare in profondità i fenomeni che diamo per scontati, per naturali: potremmo restare stupefatti.