Servono davvero nuove carceri?

Nel nostro ordinamento giuridico anche al reo sottoposto a una pena detentiva è garantito, almeno formalmente, un trattamento consono al mantenimento della dignità della persona, considerata inviolabile in qualsiasi circostanza l’essere umano si trovi. Questi principi sono incastonati in due articoli: uno di carattere nazionale, facente parte della Costituzione; l’altro sovranazionale, contenuto della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, inglobato nella legislazione italiana attraverso l’art. 117 Cost., il quale afferma che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali» (di quest’ultimi si tratta, nel caso di specie).
L’articolo della nostra Carta Costituzionale preso in oggetto è il 27. Esso sancisce che «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte».

Prendiamo in considerazione, ora, l’altro vincolo che il sistema penitenziario italiano è tenuto a rispettare, vale a dire l’art. 3 della CEDU, dove è posto nero su bianco il divieto di tortura: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Proprio in relazione a quanto affermato in questo articolo, che rafforza ciò che è già sottolineato nella nostra legge suprema, l’Italia è stata destinataria di una condanna emessa nel 2013 dalla Corte Edu di Strasburgo, autorità giurisdizionale in materia di CEDU. Si tratta della sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ricorsi n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, a opera della seconda sezione. Questa, reputata una sentenza pilota, è giunta dopo centinaia di ricorsi presentati da detenuti del nostro Paese, coadiuvati da alcune associazioni in loro difesa, con l’intenzione di opporsi al degrado cui erano sottoposti in carcere a causa del sovraffollamento. In particolare, la Corte ha accertato il trattamento lesivo della dignità umana consumatosi ai danni di sette ricorrenti.

La particolarità di questo dispositivo e delle sue motivazioni è che lo Stato italiano non è stato ritenuto colpevole della violazione dell’art. 3 poiché dei soggetti incarcerati hanno subito atti di violenza fisica materiale, quali possono essere le percosse; bensì, la tortura che è stata riconosciuta essere sussistita concerne i luoghi angusti in cui i condannati scontano la pena, ammassati in celle non consone alla vita di un numero elevato di esseri umani. Così, è stata posta in evidenza l’incompatibilità tra lo stato dell’epoca delle strutture carcerarie italiane e la garanzia di inviolabilità della sfera dei diritti umani.

Si è così scatenato un dibattito su quale soluzione fosse più efficace per non incorrere in nuove violazioni. Tra queste, è stata avanzata l’ipotesi di un piano di costruzione di nuove carceri, al fine di attenuare l’emergenza sovraffollamento. Questa è l’idea che è stata preponderante negli ambienti del governo fino al 2011. Numerose, però, sono state le voci che si sono opposte a questo progetto, denunciando che la capienza delle carceri avrebbe raggiunto quota 80000, una cifra eccessiva se si tiene conto che l’aumento dei detenuti non è direttamente legato all’andamento in rialzo della criminalità. Peraltro, i dati, già in quel periodo, parlavano di una decrescita di omicidi e furti, dopo il picco avuto negli anni ‘80. Insomma, aumentare i posti in carcere risultava poco utile.
Autorevoli esperti suggerivano, dunque, l’attuazione di altre politiche, che sono state poi effettivamente preferite: una serie di interventi sia sul piano normativo che regolamentare/amministrativo. Questi hanno inciso favorendo il crollo del numero dei detenuti, registratosi tra il 2012 e il 2015, anni in cui si è attestato un calo di ventimila persone incarcerate. Per questa ragione, proprio nel 2015, il Consiglio d’Europa ha lodato il nostro Paese, ergendolo a paradigma per la risoluzione della problematica in oggetto in tempi celeri.

Tuttavia, dopo la chiusura di questo fascicolo, è accaduto, immediatamente, che la popolazione è ripresa ad aumentare, fino a diecimila unità, anche se la legislazione era rimasta invariata e i reati, con grande vanto del Ministero dell’Interno, erano diminuiti. Il fenomeno qui delineato viene denominato populismo penale. Esso rappresenta il fatto che il diritto penale e, in generale, i temi legati alla sicurezza del cittadino sono diventati centrali all’interno della competizione elettorale. Essi risultano, infatti, molto efficaci ai fini dell’acquisizione del consenso. È paradossale notare come, da un lato, ci si bei degli ottimi risultati raggiunti in ambito di contrasto alla criminalità, che ha condotto a un positivo ridimensionato della delinquenza; dall’altro, si pone una forte enfasi sulla necessità di combattere le attività illecite, cagionando angoscia e sentimenti di avversione negli elettori, spesso indirizzati verso la popolazione straniera, considerata responsabile per eccellenza di questi sbandierati delitti. Questo produce gli esiti che abbiamo osservato, in termini di aumento della popolazione nelle carceri e di violazione dei diritti fondamentali.