Un capitalismo in cui il caso e l’evasione pagano

«Ricorda che c’è qualcuno meno fortunato di te». Una frase fatta che molti di noi hanno sentito e magari qualche volta pure pronunciato, riferendosi ai meno abbienti. Sembra un’affermazione innocua ma in realtà nasconde, volendo esagerare, una delle ragioni per cui l’Italia è ancora ferma al palo dopo la crisi del 2009.

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L’economista Luigi Zingales

Proviamo per il momento, solo per esercizio intellettuale, a non pensare alle responsabilità politiche che quella crisi hanno aggravato e a concentrarci solo su di noi: come spiega l’economista Luigi Zingales nell’illuminante Manifesto capitalista (Rizzoli) «solo il 40% degli americani ritiene che sia la fortuna, e non l’impegno nel lavoro, a giocare un ruolo determinante nelle disuguaglianze di reddito». Lo stesso studio mostra come la percentuale sia molto più alta in Brasile (75%), ma anche in Danimarca (66%) e addirittura in Germania (54%). Zingales non ci dice quale sia il dato italiano, ma è probabile che non sia nemmeno lontanamente simile a quello americano, e il modo di dire citato in testa a questo articolo sembra dimostrarlo. Chi ha meno successo finanziario è meno fortunato: è il caso il principale responsabile della sua situazione. A 2855725-9788817059015conferma di ciò, come ricorda anche Zingales, c’è la diffusa concezione europea (e quindi anche italiana) che il self-made-man sia un ricco di serie B, un parvenu. L’impegno e le competenze e l’esperienza che con esso si guadagnano figurano addirittura, secondo uno studio pubblicato dalla Luiss nel 2007, al quinto posto come fattori determinanti del successo finanziario: per 8 manager italiani su 10 è necessario «conoscere persone influenti».
Quelle che sembrano solo elucubrazioni per accademici che vogliono perdere tempo sono invece sintomi della differenza di mentalità che separa il capitalismo americano da quello europeo, e quindi italiano: quest’ultimo è un «capitalismo clientelare” in cui è necessario «essere» o «apparire» prima di «saper fare». E bisogna anche avere fortuna: nascere in una famiglia con i giusti agganci, conoscere chi può darci un lavoro, essere vicini al potente di turno. È un sistema e, in quanto tale, non lascia che minimi spazi alla ribellione: l’outsider nasce e sopravvive in una perenne posizione secondaria, parte sempre in svantaggio e non ha mai le stesse opportunità (perifrasi fondamentale nel capitalismo) di chi invece col sistema convive e collabora.
E la politica? Ha le sue (enormi) colpe: a destra l’unico partito liberale e capitalista che ha funzionato è stato Forza Italia, con i suoi vari sequel, che però ha come leader una figura di spicco di questo capitalismo clientelare, quindi sarebbe impossibile pensare che venisse proprio da Berlusconi una spinta verso l’uguaglianza in partenza e la legalità e l’eticità dell’economia; a sinistra, soprattutto negli ultimi vent’anni, abbiamo avuto politici più o meno centristi che, gigioneggiando grazie all’assenza di una destra liberale vera, hanno fatto il gioco dei berluscones e non hanno portato al cambiamento.
Matteo Renzi non è stato un cambiamento, non essendosi fatto portatore di una politica nuova, volta alla legalità, all’uguaglianza di fronte alla legge e soprattutto di fronte al fisco. Le tasse continuano a pagarle solo i più stupidi: di fronte a più di 250 miliardi di evasione si può dire che delinquere paga. Non si esce dal fondo del barile che stiamo raschiando con le mancette elettorali, bensì cambiando rotta di fronte a un problema che danneggia chi paga (sempre i più deboli) e continua a far ingrassare i potenti. «Capitalismo clientelare»? Qui sarebbe il caso di coniare il termine «Capitalismo delinquenziale».