Consumiamo meno carne per salvare il pianeta

Se sul fatto che sia più sostenibile spostarsi in bicicletta o a piedi piuttosto che prendere l’auto per percorrere poche centinaia di metri c’è ormai poco da discutere, quello che ancora è ignoto ai più è il determinante ruolo giocato dal consumo di carne, formaggi e latte nell’avanzata dell’attuale crisi ambientale. A ragion di ciò l’organizzazione ambientalista Greenpeace ha lanciato lo scorso 17 giugno la #SettimanaSenzaCarne, campagna internazionale che arriva domenica alla sua conclusione. Lontana dal voler suggerire un categorico e totale rifiuto della carne come elemento di una dieta equilibrata, l’iniziativa propone piuttosto una riflessione sull’alimentazione in termini di sostenibilità ambientale.

In base al rapporto «Meno è meglio», pubblicato da Greenpeace nel 2018, il corrente sistema alimentare è responsabile di un quarto della produzione dei gas serra e, se i processi produttivi di questo dovessero rimanere invariati, entro il 2050 lo stesso sistema contribuirebbe per più del 50% alle emissioni totali, di cui il 70%  riconducibile ai settori della produzione di carne e prodotti lattiero-caseari. Date le prospettive è evidente come la scelta di adottare una dieta vegetariana o a basso consumo di prodotti animali assuma ad oggi i caratteri di un’alternativa inevitabile per la sopravvivenza stessa del Pianeta.

In un momento storico in cui sottovalutare o, ancor peggio, ignorare i cambiamenti climatici non è più ammissibile, decidere quali pietanze portare in tavola e cosa mettere nel carrello della spesa diventa così una presa di coscienza, una scelta da farsi «non per un’ideologia vegetariana/vegana, o la smania di diventare un ecologista militante, ma unicamente per le evidenze scientifiche», come afferma Pete Smith, direttore scientifico del Climate Change Centre of Expertise scozzese. Le parole del professore sono chiare:  le evidenze scientifiche riguardanti l’impatto di carne e prodotti lattiero-caseari sull’ambiente sono tali da richiedere un radicale cambio di rotta nelle abitudini che l’odierna società ha sviluppato nei confronti di questi alimenti.

Rifugiarsi nella superficiale convinzione che non sarà la nostra buona azione a porre fine alla catastrofe naturale in corso è ormai privo di senso: in quanto consumatori siamo chiamati quotidianamente ad agire in sostegno o meno di un sistema produttivo evidentemente incapace di tutelare l’ambiente.  Quella che oggi potrebbe essere erroneamente annoverata come un’azione di poco conto, quale ad esempio la decisione di acquistare la propria scorta di formaggio da produttori locali o la carne da allevamenti sostenibili, rappresenta al contrario una scelta decisiva nella lotta ai cambiamenti climatici. 

Se da un lato risulta dunque evidente come l’iniziativa individuale costituisca un punto di partenza fondamentale per un processo di transizione verso un sistema produttivo sostenibile, è altresì chiaro come questo richieda la mobilitazione congiunta tanto dei produttori quanto dei governi. Accettare che si continui sulla linea dell’industrializzazione degli allevamenti intensivi, gli unici in grado di affermarsi sul mercato con prezzi competitivi, equivale di fatto a legittimare il permanere di una situazione di disparità a svantaggio dei piccoli produttori, così esclusi dal settore. In una prospettiva quale è quella attuale di crescita demografica, la necessità di varare politiche economiche in grado di rispondere alla sempre maggiore domanda di prodotti animali attraverso un sistema produttivo equo non può così che rappresentare l’ultimo imperativo categorico su cui fare affidamento nel drammatico scenario di una crisi ambientale.