Dopo la Nuova Via della Seta, qual è il posto dell’Italia nel mondo?

La settimana più incandescente per i risvolti geopolitici globali, quella che è giunta a conclusione con l’ingresso in visita ufficiale di Xi Jimping in Italia e con la definitiva siglatura del memorandum d’intesa ribattezzato Nuova Via della Seta, spinge inevitabilmente a riconsiderare con attenzione le principali orme segnate dal nuovo governo italiano nell’arena della politica internazionale, alla ricerca di una sintesi del lungo anno vissuto che possa esser fonte di luce per chi voglia comprendere la genesi e l’evoluzione del nuovo e insolito ruolo italiano nel mondo.

L’ardito passo che ha suscitato il fastidio statunitense, i timori dell’eurozona e la disapprovazione delle forze interne d’opposizione, giunge, infatti, ad essere il completamento di un lungo percorso avviato nei primi mesi estivi del 2018 e a divenire, dunque, esso stesso evento chiarificatore delle poco lineari mosse adottate dall’ascesa del polo giallo-verde.
Ci riferiamo, innanzitutto, all’EPA, Economic Partnership Agreement, il più grande accordo mai negoziato dall’Unione Europea, approvato in chiave definitiva nel dicembre del 2018 e fortemente promosso dal M5S. Entrato in vigore nel febbraio del 2019, ha eliminato i dazi su circa il 99% dei beni europei esportati in Giappone, con il conseguente beneficio tratto dal Bel Paese che, da sesto partner commerciale della potenza asiatica, ha oggi la facoltà di veder protetti da contraffazione ben 46 prodotti italiani, di incrementare il valore delle esportazioni con la potenza nipponica, stimato prima della firma dell’accordo a 6,6 miliardi di euro, di rinvigorire le piccole e medie imprese italiane impegnate nel settore agro-alimentare. Proprio il Giappone di Shinzo Abe, dopo la promettente partecipazione al Forum Economico di Vladivostok dello scorso settembre, pare ambire ad uno storico trattato di pace con la Russia putiniana, che, intenzionata a spegnere irrevocabilmente la disputa sulle Isole Curili, occupate nel corso del secondo conflitto mondiale da Stalin e da allora non più cedute al vicino nipponico, nonché ben adattabili per la loro posizione geografica ai flussi della Nuova Via della Seta, potrebbe rendere il suo rivale pluridecennale un valido alleato per la riduzione del peso crescente assunto dalla Repubblica Popolare Cinese, già legata alla Russia attraverso l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, l’organismo intergovernativo nato nel 2001 per oscurare l’alleanza atlantica e rinforzato dall’isolazionismo statunitense.

L’Italia giallo-verde ha guardato non solo a un’ottimizzazione dei rapporti con il Giappone, ma mira come meta ineludibile ad un sovvertimento dell’unilatelarismo della NATO, nell’ottica di incoraggiare la fine alle sanzioni contro la Russia, che anche la narrazione leghista accusa di danneggiare la buona riuscita degli scambi commerciali caldeggiati dalle imprese italiane. Dinanzi ai dati Istat elaborati da Conoscere Eurasia, che evidenziano nel 2018 una flessione dell’export italiano in Russia del 4,5% rispetto al 2017, indotta non solo dal dilemma delle sanzioni, ma in particolar modo dall’incapacità italiana di affrontare il mercato russo con la medesima sfrontatezza ostentata da Germania e Francia, che, adottando un metodo duale, dichiarano distanza politica da Mosca, ma si affrettano nell’invasione economica del territorio russo, l’Italia, con le parole di M. di Stefano continua a richiedere da parte dell’Ue un cambiamento di paradigma.
Nell’imitazione delle potenze europee attive nello sterminato mercato cinese, l’Italia ha poi definitivamente aderito a Belt and Road Initiative, con un terzo gesto che accosta la penisola al blocco antiatlantista. La missione, infatti, è quella di proporre il recupero nel volume dell’export con il gigante asiatico, mai giunto a superare quello conquistato da Francia e Germania, né tanto meno quello ricavato da realtà minori come Svizzera e Belgio, che, secondo Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Affari Esteri, con il più coraggioso accostamento tentato dal Bel Paese saranno oggi costrette ad inseguire, nonché di allacciare densi rapporti commerciali con le realtà emergenti del continente asiatico.

Tali rilevanti azioni, tuttavia, seppur valide per la constatazione di un progressivo distanziamento dagli impersonali suggerimenti di Bruxelles, incapace di coordinare le volontà europee nella sintesi di un progetto comune e sempre più in affanno nella gestione del risveglio italiano, non devono trarre in inganno l’osservatore e trasportarlo nell’ammissione di un inaudito allontanamento dal Patto Atlantico. Le più calorose strette di mano al neonato governo italiano sono giunte nei primi giorni di giugno proprio dal numero uno di Washington, Donald Trump, che, assorto nella lotta al governo tedesco, imponeva nell’imminente stagione estiva i dazi al 25% sull’acciaio e al 10% sull’alluminio, aprendo all’inconsueto governo Conte in funzione anti-tedesca e garantendo pieno sostegno al Bel Paese nella gestione del caso libico.

Da tali atti, emerge, pertanto, l’immagine di un’Italia neutrale e polimorfa, che, non guidata da un’autorevole cabina di regia europea, ma ferita dal Trattato di Aquisgrana dell’asse franco-tedesco, abbraccia le opportunità offerte da Giappone, Cina e USA, invita al potenziamento dei rapporti con la Russia e a un superamento delle sanzioni, aspira ai mercati emergenti, ossia, in altre parole, a sfruttare le congiunture attuali, mentre gradualmente il globo tende ad assumere una sempre maggior polarizzazione, contrassegnata nella fase corrente dall’isolazionismo statunitense e dal progressivo congiungimento del blocco orientale (Russia, Cina, Giappone), a cui la debolezza del continente europeo infonde energia. Se la realtà contingente induce alla neutralità, il futuro prossimo chiamerà all’assunzione di una posizione che il Bel Paese, al centro dell’attenzione di molteplici fronti, dovrà realizzare anche nell’ascolto dell’interesse europeo, perché questo, solo se unito, potrà scongiurare la tensione del dissidio che si prospetta.