Due parole sulla disobbedienza

Il 2019 si è chiuso con un arresto che ha sia nella forma che nella sostanza qualcosa di clamoroso: Nicoletta Dosio, storica attivista NO TAV finita sotto processo per aver bloccato un casello autostradale per una mezz’ora al fine di far fluire il traffico senza pagamento del pedaggio, ha rifiutato le misure alternative e ha deciso di affrontare il carcere per più di un anno come azione simbolica contro l’iniquità della condanna. Si tratta di un simbolismo poliedrico, che riguarda sia la sua persona, una voluta dimostrazione di schiena dritta, sia il suo movimento, riportato alla luce della ribalta dopo mesi di sconfitte e di fondamentale oblio, sia, soprattutto, gli interrogativi che pone sullo stato della Giustizia in merito alle lotte sociali e non solo.

La settantatreenne ha compiuto un gesto di disobbedienza civile, concretizzata nella violazione dei domiciliari durante la custodia cautelare e nel rifiuto delle misure alternative. Però, com’é trapelato dalle sue stesse successive dichiarazioni, in virtù del moralmente legittimo strumento di protesta che ha utilizzato, il gesto di invocare la grazia soltanto per lei o per i NO TAV coinvolti in simili episodi, decisamente irrilevanti sul piano del danno provocato, diviene un ossimoro. Il vero scopo della detenzione della Dosio è trovare una soluzione per l’iniquità della condanna e dimostrarne la necessità in prima persona.

Ma qual è la richiesta legislativa alla base della sua scelta? Ottenere un’amnistia per i reati legati alle lotte sociali. Una richiesta molto forte, inapplicabile come diritto universale perché facilmente strumentalizzabile a livello di estremismo politico e movimentista, che allo stesso tempo apre molti scenari interpretativi, uno tra tutti la profonda e sacrosanta revisione del sistema penale con depenalizzazione di molti reati insignificanti, resasi ormai rapidamente necessaria da decenni di immobilismo politico bipartisan. Una sanzione pecuniaria adeguata al danno provocato sarebbe più che adeguata in un caso del genere, nonché rapida e meno gravosa sulle spalle dei tribunali, come in innumerevoli altri che intasano il sistema per questioni di poco conto. Decretare nel disegno di legge la commutazione delle pene inflitte precedentemente la depenalizzazione, inclusa la sua, completerebbe l’opera.

Senza entrare nel merito della lotta NO TAV né delle personali idee della Dosio, in un Paese culturalmente avanzato non ha alcun senso scontare più di un anno di carcere per aver alzato una sbarra di un casello autostradale causando qualche centinaio di euro di mancato introito, seppur il comportamento in sé, decontestualizzato, non sia legittimo e meriti una sanzione. L’obiettivo di un atto di disobbedienza civile, del resto, è fungere da spunto per fare giurisprudenza. Dunque, chiedere la sua liberazione come atto una tantum prima che il suo scopo sia raggiunto equivale a disobbedire alla disobbediente, negando l’importanza simbolica della scelta. Decisioni di questo stampo vengono assunte per essere ascoltati, non salvati. Al netto delle opinioni e delle prese di posizione in merito, è innegabile che il gesto della Dosio ha colpito nel segno ed è auspicabile che abbia delle conseguenze di apertura verso lo stemperamento della tensione, della distorsione e della prepotenza imperanti nel dibattito pubblico e nella sua gestione.