Il mistero del «Corvo 2»: il professor Di Miceli, un uomo molto informato

di Progetto Turing: Tito Borsa

Terza puntata

Pietro Di Miceli parrebbe essere un personaggio minore della storia di Cosa Nostra degli ultimi decenni, un personaggio talmente minore che nelle testimonianze al processo sulla Trattativa il suo nome viene addirittura storpiato: il pentito Antonino Galliano lo chiama Pino. Ma Di Miceli potrebbe essere molto più che una comparsa in quella zona grigia che univa mafia, servizi, politica e massoneria.
Lo chiamavano «il Professore», epiteto che generava anche facili ironie («Professore di che?»), ma Pietro Di Miceli era un commercialista, ben inserito negli ambienti della Palermo che conta e anche in quelli meno limpidi di Cosa Nostra e dei servizi. Pochissime foto e pochissime interviste, La Repubblica nel 1994 lo definiva «il Professore dei misteri».

Come abbiamo visto, il suo nome appare nel «Corvo 2». Di Miceli è addirittura uno dei protagonisti della ricostruzione mai dimostrata dell’anonimo. Chiunque sia l’autore di quelle righe, è a conoscenza di informazioni riservate e lancia un amo che è difficile non raccogliere: anche se la ricostruzione dell’omicidio di Falcone fosse del tutto fasulla, una certezza c’è. Qualcuno talmente vicino al Sisde da conoscerne un’attività sotto copertura voleva puntare l’attenzione su Di Miceli.

Che Di Miceli fosse vicino ai servizi e conoscesse dei boss di Cosa Nostra lo veniamo a sapere proprio dalla testimonianza di Galliano al processo Trattativa: il pentito accompagnava Raffaele Ganci da «un commercialista di nome Miceli (Di Miceli, ndr), un altro commercialista di nome Mandalari, che erano delle persone che loro (Raffaele e Domenico Ganci, ndr) ritenevano, dicevano che erano, facevano parte uno della massoneria, uno dei Servizi Segreti Civili e potevano aiutare cosa Nostra». Subito dopo precisa: «Miceli ai servizi segreti e il Mandalari alla massoneria». 

Anche la parte «pubblica» della vita di Di Miceli è degna di nota: la sua attività di commercialista lo aveva portato a conoscere bene anche gli ambienti del Tribunale di Palermo, trovando parecchio lavoro in particolare nella sezione fallimentare. I rapporti professionali con il Tribunale iniziano nei primi anni Ottanta, Di Miceli figurava come consulente, ma stiamo parlando di un consulente importante, con uno studio a Palermo e uno a Roma. In questi anni si è parlato anche di un terzo studio, ma le ricerche non hanno portato a nulla.

Dal punto di vista giudiziario, la vicenda Di Miceli non porta a nulla: il caso viene archiviato a Palermo, mentre il Professore ottiene nel 2006 l’assoluzione con formula piena a Caltanissetta, il cui processo determina che il commercialista aveva rapporti con i boss senza però trovare nella sua condotta alcun risvolto penale. 

Personaggio molto interessante, Pietro Di Miceli, a cui sarebbe stato molto interessante porre alcune domande. Purtroppo il Professore è morto alcuni anni fa. L’ultima ad averlo intervistato è stata la giornalista siciliana Dina Lauricella per il Fatto Quotidiano, il 17 ottobre 2012. 

In questa intervista il Professore parla anche del «Corvo 2»: «Quella lettera mi descrive come l’anello tra la politica e la mafia. Per colpa di un vero e proprio depistaggio è partito un procedimento penale contro di me che è durato ben 14 anni», si lamenta. Di Miceli si dipinge come una vera e propria vittima: non ha avuto nessun rapporto con la massoneria, i quattro pentiti che lo descrivono come vicino alla famiglia Ganci mentono e così anche i membri del R.O.S. che sostenevano che il commercialista fosse vicino ai corleonesi. «Li ho querelati», conclude riferendosi a quei Carabinieri. 

Pietro Di Miceli oggi avrebbe poco più di ottant’anni ma, purtroppo, è morto da alcuni anni. Non potendo parlare con lui, abbiamo sentito proprio Dina Lauricella:

«Di Miceli è un personaggio già noto a Palermo perché commercialista stimato in ambienti alti della Palermo bene, come tribunale e avvocati.
Il “Corvo 2” in qualche modo racconta la nascita della Trattativa Stato-mafia, il personaggio che avrebbe messo insieme ambienti istituzionali e ambienti di Cosa Nostra è proprio Di Miceli. Il Corvo ne fa una descrizione affascinante, cinematografica. Tutte cose che oggi raccontiamo con molta prudenza dopo le sentenze che hanno scagionato Mannino da tutte le accuse. Ciò non toglie che l’ombra su Di Miceli, che a sua volta ha superato indenne un’indagine del R.O.S. a suo carico, rimanga, visti dei contatti mai indagati tra questo personaggio di spicco dei salotti palermitani e ambienti mafiosi.
Il Corvo dà l’indicazione di “via Roma 457” che potrebbe sembrare una casualità in mezzo a tante. Quello è il palazzo dove avevano sede i servizi segreti e, guarda caso, aveva anche sede lo studio palermitano di Di Miceli il quale quando gli faccio notare questa cosa dice che è assurdo e che si è accorto solo tre anni dopo aver aperto lo studio che ai piani superiori c’erano i servizi. Lui se la cava molto bene.
È stato facilissimo rintracciare Di Miceli e non pensavo gli potesse fare piacere affrontare l’argomento ma lui è il primo a volerlo fare ed è il primo a dirmi “Ma com’è che nessuno ha mai indagato fino in fondo su questo ‘Corvo 2’?”. Sembra che qualche cosa il “Corvo 2” l’abbia anticipata. Quella lettera comunque è probabile che arrivi da ambienti misti tra Cosa Nostra e istituzioni.
Io avevo sentito Contrada a proposito del “Corvo 2” e lui dovrebbe aver detto che l’ultimo a indagare sull’anonimo sarebbe stato lui. Ed è strano che tutto si blocchi quando arriva sulla sua scrivania.
Di Miceli dice una cosa che fa pensare: “I R.O.S. dicono che ero vicini ad ambienti mafiosi nello stesso momento in cui loro stanno trattando con Cosa Nostra”. Lui questo lo fa notare con un certo disappunto». 

Alcuni interrogativi sono destinati a rimanere senza risposta. Uno su tutti riguarda il motivo per il quale Di Miceli nel 1994 utilizzasse un cellulare intestato all’Immobiliare Building di Cesare Lupo, braccio destro, incaricato di riscuotere il pizzo e poi successore dei fratelli Graviano a Brancaccio. Oggi al 41 bis. 

A proposito di questo Dina Lauricella ci racconta: «Il fatto che Di Miceli avesse il telefono di Cesare Lupo avrebbe potuto essere importante per capire l’eventuale ruolo del commercialista nella Trattativa ma si è fermato tutto».

Quel numero è intercettato dai Carabinieri del Comando Provinciale di Palermo, che ascoltano e trascrivono varie telefonate. Interessante è quella che risale alle 16:34 del 7 dicembre 1994, nella quale il Professore parla con una donna non identificata dai militari. 

Ecco la trascrizione integrale della chiamata. 

DI MICELI: Pronto?
DONNA: Buonasera, come va?
DI MICELI: Ecco benino grazie, lei?
DONNA: Bene, la disturbo?
DI MICELI: Assolutamente no.
DONNA: Ahh…, le fai piacere sapere che il Ministro ha cambiato idea e mi ha nominato capo della segreteria.
DI MICELI: Perfetto! Un abbraccio e complimenti.
DONNA: Grazie, quindi non mi troverà più lì, a via Boncompagni, ma sarò direttamente dal ministro e venerdì vado a prendere possesso.
DI MICELI: Ahh… e poi mi darà il suo recapito…
DONNA: E certo le dirò, le darò tutto, tutto quanto.
DI MICELI: Il capo della segreteria del ministro.
DONNA: Va bene così?
DI MICELI: Magnifico!
DONNA: Va bene.
DI MICELI: Magnifico.
DONNA: Va bene.
DI MICELI: Un abbraccio veramente affettuosissimo…
DONNA: Grazie.
DI MICELI: … e tanti complimenti.
DONNA: Grazie. Saluti anche a sua moglie.
DI MICELI: Grazie, sarà servita.
DONNA: Grazie.
DI MICELI: Arrivederla.
DONNA: Arrivederla, arrivederla. 

Ricapitoliamo: una donna non ben identificata viene nominata capo della segreteria di un ministro e lo racconta a Di Miceli telefonandogli a un numero – evidentemente in suo uso – intestato alla azienda del braccio destro dei Graviano, che erano stati arrestati a Milano quasi un anno prima, il 27 gennaio 1994. Il 7 dicembre, data della telefonata, è ancora in carica il primo governo Berlusconi, che cadrà un paio di settimane dopo. 

Se il contenuto della telefonata è attendibile, e obiettivamente è difficile dare un’altra interpretazione a queste parole se non quella letterale, un ministro dell’esecutivo dell’allora Cavaliere aveva nominato capo della segreteria una donna che, oltre ad avere un rapporto privilegiato con Pietro Di Miceli, era anche a conoscenza dell’esistenza di quel numero di cellulare. 

I richiami agli ambienti dell’ex Cavaliere, però, non finiscono qui. 

L’11 marzo 1995 Pietro Di Miceli incontra Max Parisi, al tempo giornalista dell’entourage della Lega Nord che aveva appena fatto cadere il primo governo Berlusconi. Erano gli anni degli attacchi più violenti del Carroccio nei confronti dell’ex alleato. Parisi, nonché i vertici del partito, erano ovviamente ben contenti di scoprire qualcosa di nuovo, e di non certo positivo, su Berlusconi. 

L’incontro con Di Miceli diventerà qualche anno dopo un libro, Soldi sporchi al Nord, pubblicato da Editoriale Nord e distribuito solamente alle feste della Lega. Oggi è praticamente introvabile, come se non fosse mai esistito. 

«Voi lo sapevate che segnalai personalmente a Giovanni Falcone la presenza di documenti sui rapporti fra Marcello Dell’Utri e i clan di Cosa Nostra?». Le parole del Professore sconvolgono Parisi. La condanna definitiva nei confronti del braccio destro di Berlusconi per concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe arrivata quasi vent’anni dopo. Davanti al giornalista, Di Miceli si riferisce a dei versamenti risalenti al periodo tra il 1975 e il 1977: i suoi riscontri «possono far pensare che la mafia lavorasse e facesse affari tramite Dell’Utri», il quale sarebbe quindi stato un «tramite, un punto di collegamento». Di Miceli tira a quel punto in ballo Vittorio Mangano, il noto «stalliere» di Arcore che ha lavorato per Berlusconi tra il 1973 e il 1975. 

Paolo Borsellino il 21 maggio 1992, in un’intervista rilasciata un paio di mesi prima di essere ucciso a Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo per Canal Plus, descrive Mangano come «uno di quei personaggi che erano ponti, le teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia».

Latitante da alcuni anni, Mangano viene arrestato il 4 aprile 1995 e viene condannato in primo grado all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Palermo il 19 luglio 2000, accusato del duplice omicidio di Giuseppe Pecoraro e Giovanbattista Romano, quest’ultimo su ordine di Leoluca Bagarella e di Giovanni Brusca. La condanna arriva quando Mangano sta scontando (ai domiciliari, a causa di un tumore) un’altra pena per traffico di stupefacenti ed estorsione. Muore il 23 luglio 2000.

Tutto questo è, oggi, cosa più o meno nota. Ma Pietro Di Miceli era un uomo parecchio informato per esserne al corrente nel 1992. 

Mangano, secondo Dell’Utri, faceva lo stalliere ad Arcore perché a corto di denaro. Quando arriva a Villa San Martino, però, era già stato arrestato 3 volte ed era stato oggetto di alcuni procedimenti penali per truffa, emissione di assegni a vuoto, ricettazione, lesioni volontarie e tentata estorsione. Da Berlusconi lo porta Dell’Utri, il quale – secondo il Tribunale di Palermo, con sentenza poi confermata in Cassazione – era a conoscenza dello «spessore delinquenziale» di Mangano. Le difficoltà economiche dello stalliere sono un argomento difficile da sostenere, visto che nel frattempo uno dei capi di Cosa Nostra, Totuccio Inzerillo, gli mandava regolarmente denaro. E allora che cosa ci faceva Mangano ad Arcore?