Immigrazione: un’altra ecatombe in mare

Settembre 2015. Le foto del corpicino inerme di Aylan Kurdi, il bambino siriano che non è riuscito a sfuggire alla furia del mare mentre tentava di raggiungere la Turchia con la sua famiglia, fanno il giro del mondo.  Ci sono proteste, indignazione, satira (una vignetta di Charlie Hebdo sulla vicenda apre un lungo dibattito).

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Maggio 2015: un’altra foto di un altro bimbo (o bimba, non si sa ancora nulla), la cui vita è stata strappata dalle onde del Mediterraneo, diventa il simbolo di un’altra tragedia. Viaggiava su un’imbarcazione in legno che non ha retto la traversata.
La notizia conclude una delle settimane peggiori di sempre nell’ambito di tale emergenza: secondo Frontex nello scorso aprile i migranti giunti sulle coste italiane attraverso il Mediterraneo centrale sono stati quasi 8400, in calo rispetto a marzo (13% in meno) e rispetto a un anno fa (50% in meno), ma nell’ultima settimana, dal 22 al 29 maggio, i morti sono stati circa novecento, tra cui 40 bambini. Sono state salvate 13mila persone.
E ben presto ci sarà una nuova fonte di partenze, come raccontato sul Fatto del 30 maggio: principale provenienza il Burundi, paese scosso dalla guerra civile e fortemente in crisi. Circa 270mila burundesi, secondo l’Onu, sono già scappati per rifugiarsi nei paesi vicini.
È evidente ormai che si tratta di un flusso non arginabile, di un problema che non si può più ignorare. Va bene che ci siano progetti di accoglienza in mare aperto da parte di traghetti della Marina, va bene che le chiese aprano le porte ai migranti, come chiesto da papa Francesco, ma finché non ci saranno strutture adeguate ed efficienti per i controlli sanitari, l’identificazione, finché non ci saranno accordi internazionali di inclusione e non di esclusione, il problema rimarrà drammaticamente aperto. Come cantava Dylan: «Quante morti ci vorranno perché l’uomo sappia che troppe persone sono morte?»