Insegnamento, lasciate ogni speranza voi che aspirate

Non è mai stato facile né immediato farsi strada in questo mondo. E d’altro canto molti non ci trovano neppure qualcosa di gratificante. Sto parlando di loro: gli insegnanti. È pur vero, però, che se le università sfornano continuamente laureati che hanno sputato sangue pur di rientrare nei criteri di abilitazione all’insegnamento, qualcosina di affascinante questo mestiere deve averlo.

Oggi questa strada si sta facendo ogni giorno più difficoltosa e accidentata, e ci sono orde di poveri, stressati, stanchi ma tuttora testardi e ambiziosi studenti che non mollano la presa.

La povera, stressata, stanca ma tuttora testarda e ambiziosa sono io. Ho appena iniziato la laurea magistrale in Lettere, sapendo fin da quando mi sono iscritta alla triennale, quattro anni fa, che questo mondo sarebbe stato un grande punto interrogativo; pazienza. Ho sempre pensato che in qualche modo la faccenda prima o poi dovrà risolversi.

Per i disinformati, nel corso del tempo si sono succedute diverse forme di inserimento sul campo: prima c’è stata la SSIS (Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario), di durata biennale e a numero chiuso, cui si accedeva dopo la laurea specialistica. Entrato in vigore dall’anno accademico 1999/2000, questo sistema è durato nove anni; direi un periodo lungo in confronto agli provvedimenti sulla scuola.

Un altro acronimo è giunto a soppiantare la SSIS, dal 2008/2009: il TFA, ovvero il Tirocinio Formativo Attivo. Personalmente, avendo iniziato l’Università nel 2010, mi sono interessata in modo più approfondito a questo, credendo (illusa!) che un giorno avrebbe riguardato anche me. Il TFA, come il SSIS era a numero chiuso, di molto inferiore al numero di studenti che volevano imbarcarsi in questa strada tortuosa.

Cosa fanno nel frattempo gli studenti che aspirano a tanto, che devono conseguire la sospirata laurea? Accumulano i crediti necessari all’abilitazione all’insegnamento. Non è scontato laurearsi, dopo cinque anni di Università, in Filologia moderna ed essere idonei all’accesso. Troppo semplice! Accumulare i crediti necessari significa individuare quali esami sostenere per poter, un domani, insegnare Lettere. Con le dovute distinzioni tra scuole medie inferiori, scuole secondarie di secondo grado e licei, bisogna totalizzare un certo numero di crediti in letteratura italiana, storia, geografia e latino; ogni povero, stanco, stressato ma tuttora testardo e ambizioso ha ormai imparato a memoria quei numeri, oltre al piano di studi ideale.

E cosa succede ai piani alti in questo periodo? La morte del TFA. Quest’estate è andato in scena l’ultimo capitolo. Alla regia Stefania Giannini, produttore Matteo Renzi. Una nuova, inquietante proposta per la “Buona Scuola” è apparsa all’orizzonte: l’introduzione di magistrali abilitanti all’insegnamento, che potrebbero entrare in vigore dal 2016/2017. Un nome che sarebbe persino intelligente, peccato che i criteri di accesso siano ben diversi: vi si accede con la laurea triennale, e chi ha già intrapreso la magistrale – o peggio, l’ha terminata – non può entrare. Semplicemente perché questa fantomatica “magistrale abilitante” apparterrebbe alla stessa classe di laurea di Filologia moderna e affini, ragion per cui significherebbe laurearsi due volte nello stesso ambito, cosa impossibile.

La domanda sorge spontanea: “Buona Scuola”, ma per chi? Di certo non per chi si sta dannando, o ha appena finito di farlo, a studiare cinque anni e a dare tutti gli esami più pesanti (diciamocelo, storia e latino non sono esattamente una passeggiata) con un obiettivo specifico. Ovvero tutto il mondo studentesco iscritto all’Università prima del 2013.

Nessuno ha intenzione di usare la propria laurea magistrale per giocarci a freccette, questo è ovvio. Ed è altrettanto chiaro, in democrazia, che chi si è laureato prima dovrebbe aver diritto prima di inserirsi nel mondo del lavoro.

Possibile che tutto questo non sia stato tenuto in considerazione? Le cose fatte male non mi sono mai piaciute. E la “Buona Scuola” così non è “buona” per niente.

Laura Peron

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