L’Italia ha trasferito poteri all’UE: che rimane della Costituzione?

«(…) Con la ratifica dei Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo e coordinato con quello interno ed ha trasferito, in base al citato art. 11 Cost., l’esercizio di poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi. Le norme dell’Unione europea vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dalla Costituzione» (sentenza 86/2012 Corte Costituzionale).

Isoliamo un passaggio di questa sentenza: «L’Italia (…) ha trasferito (…) l’esercizio di poteri, anche normativi». Prendiamo in analisi il verbo che è stato utilizzato dal redattore: trasferire. Domandiamoci che cosa significa esso nella nostra lingua: dislocare da un luogo all’altro un oggetto, in questo caso, un potere e renderlo assente dove precedentemente esso si trovava. In sostanza, l’Italia ha rinunciato del tutto all’esercizio della potestà legislativa nelle materie che ora sono disciplinate dal diritto europeo.
Se si afferma che il trasferimento di poteri di cui sopra è legittimato dall’articolo 11 della Costituzione, questo appare in collisione proprio con quanto da esso enunciato al secondo comma: «Consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni».

Leggiamo, infatti, che il suddetto articolo consente, al massimo, che la sovranità sia limitata e circoscrive anche il campo di applicazione di questa compressione al mantenimento della pace e della giustizia. Di conseguenza, è evidente che non vengano contemplate cessioni di sovranità quali la rinunzia a legiferare in alcuni ambiti che è stata, al contrario, accettata dal nostro Stato, specialmente se avvenute per favorire il libero mercato e la concorrenza. Risulta, dunque, difficoltoso comprendere come possa essere chiamato in causa l’art. 11 Cost. per giustificare questa menomazione dell’azione statale.

In secondo luogo, osserviamo un altro punto della sentenza in oggetto: «Le norme dell’Unione europea vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo».

Apprendiamo che l’unico ostacolo insormontabile a questa intromissione è rappresentato dai principi fondamentali costituzionali e dai diritti inviolabili dell’uomo; tuttavia, è bene interrogarsi se davvero essi vengano preservati e applicati nonostante l’intervento dell’Unione Europea.
Esaminiamo, come esempio, l’art. 3 della Costituzione, facente parte proprio dei principi fondamentali espressi negli artt. dall’1 al 12: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Al primo comma è sancita l’eguaglianza formale di tutti i cittadini; però, concentriamoci sul secondo, il quale si spinge a garantire che gli italiani siano uguali non solamente sulla carta, ma anche sostanzialmente. L’abbattimento delle differenze e la possibilità di accedere alle stesse prospettive di vita fornita anche a chi, per ragioni fisiche, economiche, sociali, da solo non riuscirebbe a raggiungerle vedono protagonista lo Stato che, attraverso i grandiosi strumenti che lo contraddistinguono, consente che queste affermazioni teoriche si trasformino in ausilio concreto ai più svantaggiati.

Occorre chiedersi se quest’intervento sia compatibile con l’ordinamento europeo assorbito da quello italiano. Sappiamo che il nostro bilancio è sotto attenta osservazione della Commissione Europea, la quale pretende che non vengano sforati i rapporti deficit/PIL e debito/PIL elaborati a Maastricht e inglobati implicitamente nella nostra Costituzione attraverso la revisione dell’art.81 nel 2012. Perciò, la capacità di spesa pubblica è stata sacrificata, le sono stati posti dei paletti tipici della gestione aziendale che precedentemente non le appartenevano. Conseguentemente, lo Stato non è più in grado di assicurare ai suoi appartenenti quelle politiche economiche e sociali che prima portava avanti col solo obiettivo di garantire il bene della collettività.

Infine, sarebbe decisivo evidenziare quali siano effettivamente i principi e i diritti inviolabili che non possono in alcun modo essere scalfiti dalla legislazione di Bruxelles. Se si trattasse esclusivamente dei primi dodici articoli, come la ripartizione della nostra Carta Costituzionale ci induce a credere, numerosi enunciati incastonati in essa che contrastano con i trattati europei, i regolamenti, le direttive, ecc. potrebbero essere disattesi senza alcun intoppo. Se, comunque, tra i diritti inviolabili venissero compresi anche altri articoli dal 13 in avanti, è in dubbio che questi siano appieno eseguiti da quando subiamo l’influenza dell’UE. È il caso, ad esempio, dell’art. 31: «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo»; dell’art. 34 concernente l’istruzione (riportiamo il comma 3): «La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso»; ancora, dell’art. 38, al primo comma: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Si potrebbe continuare, inoltrandosi sempre più in uno scenario in cui lo Stato viene dipinto come fortemente attivo nelle dinamiche economiche e sociali del Paese, uno Stato che, secondo quanto previsto dai padri costituenti, non dovrebbe indietreggiare in nome di logiche a cui tipicamente sottostanno le imprese, ma dimostrarsi forte e presente per assicurare l’interesse pubblico: niente a che vedere con la mano invisibile su cui si fonda l’Unione Europea.