Migranti a Padova: ecco le loro storie

Alcuni mesi fa all’ex Caserma Prandina di Padova è stato allestito un centro di prima accoglienza per i profughi. La vasta area è sempre sorvegliata da Polizia e Carabinieri, per evitare che estranei possano entrare. I profughi possono uscire, sostare nel giardinetto di fronte al campo o passeggiare per il centro. Della Prandina aveva già parlato qui e qui Tito Borsa.

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Padova, ex caserma Prandina

 


Jacob (nome di fantasia) ha 16 anni e arriva dal Gambia. È arrivato a Siracusa il 19 settembre dopo circa un anno di viaggio: il 24 dicembre scorso ha lasciato il suo paese, scappando durante la notte. In Gambia lavorava come operaio e viveva solo con la nonna, perché il padre, un tassista, morì in un incidente stradale e la mamma dopo il parto. È fuggito perché è stato accusato ingiustamente dalla polizia di aver violentato la sua fidanzata sedicenne. Mi racconta che nel Gambia regna il terrore e che un suo amico venne addirittura arrestato dalla polizia per aver parlato contro il governo e la crisi politico-economica che caratterizza il paese. Per non finire in prigione decide di prendere un bus notturno che lo avrebbe portato in Senegal dalla sorella. Dopo aver attraversato il confine ed essere giunto nel Mali, per due giorni dorme per strada mangiando quel che trovava per terra. Le tappe successive sono il Burkina Faso e il Niger, raggiunti dentro il cassone di un camion. In Nigeria ci rimane poche settimane, e incontra un uomo che gli promette un lavoro in Libia, per poter pagare poi il viaggio che lo condurrà in Italia. A Bengasi lavorerà per 5 mesi come operaio, sfruttato e obbligato a lavorare quasi 20 ore al giorno, senza un minimo di guadagno. Durante una notte decide di scappare dalla fabbrica perché la Libia è troppo pericolosa e dopo aver pagato 450 Dinar (circa 300 euro) sale sul barcone che lo porterà nel porto di Siracusa. «Il viaggio è stato difficile, eravamo circa 130 persone, senza cibo o acqua per due giorni. Eravamo talmente stretti che neanche potevamo muoverci. Cinque persone sono morte e il loro corpo è stato gettato in mare. Tra queste anche una bambina piccola. Quando ho visto le luci di un faro e la barca è arrivata nel porto, ho pianto».

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Irfam ha 25 anni e viene dal Pakistan. È arrivato a Padova un mese fa. È scappato dal suo piccolo villaggio perché aveva dei problemi con delle persone che volevano ucciderlo. Per pagarsi il viaggio (circa 7000 euro) che dal Pakistan lo ha portato in Italia ha dovuto vendere le terre e gli animali che possedeva. Da Karachi raggiunge l’Iran con altre persone che come lui avevano pagato per giungere in Italia. Lì rimangono qualche settimana, per poi continuare il loro viaggio, un po’ a piedi un po’ trasportati da dei camion, giungono in Turchia. Dopo essere partiti dalle coste della Turchia sono giunti in Grecia, poi in Macedonia a bordo di un tir hanno raggiunto la Serbia. Dopo essere riusciti a prendere un treno hanno proseguito verso l’Ungheria e l’Austria. Dopo 4 mesi in viaggio l’ultima tappa è stata Milano, dove hanno fatto richiesta di asilo politico. Sono poi stati trasportati in un pullman nel centro per rifugiati a Padova. Le condizioni all’interno dell’area sono particolarmente difficili, la notte fa freddo, manca molto spesso l’acqua calda e si fa fatica a dormire. «Vorrei solo andare via da qui, mi sembra una prigione. Voglio trovare lavoro e avere un futuro dignitoso. L’Italia è bella si, ma ho tanta nostalgia della mia terra e della mia famiglia».

Emenovah è di origine nigeriana e ha 25 anni. «Le condizioni nel mio paese sono terribili. A lavoro venivo sfruttato e quel poco che guadagnavo serviva per mantenere tutta la mia famiglia. Mio fratello è stato ucciso dal gruppo terrorista di Boko Haram. Per questo motivo ho deciso di scappare in Libia. I ricordi che ho di questo paese non sono belli. Ho conosciuto un uomo che mi ha promesso di guadagnare tanto se avessi lavorato per lui». Da quel momento Emenovah è stato chiuso in una fabbrica e picchiato quotidianamente se non lavorava seguendo i ritmi disumani degli altri. Dopo aver racimolato i soldi di cui aveva bisogno per pagare il viaggio (circa 700 euro), è partito dal porto di Tripoli assieme ad altre 120 persone su di una barca vecchia e in pessime condizioni. «Ricordo ancora le urla dei bambini che piangevano disperatamente, le onde erano altissime e dovevamo cercare di stare fermi per non affondare in mare. Quando ho visto il porto di Siracusa, posso solo dirti che avevo le lacrime di gioia. Ero così felice!».

Jassama viene dal Mali e ha 27 anni. Il suo paese è stato messo in ginocchio dalla guerra civile e dal colpo di stato militare e attualmente risulta uno dei più poveri e instabili a livello globale. «Sono scappato in Algeria, a bordo di un camion stracolmo di persone. Per tre mesi ho lavorato come imbianchino, guadagnando circa 2 euro per una giornata di diciotto ore lavorative. La notte dormivo in una piccola stanza assieme ad altre trenta persone». Un giorno qualcuno gli disse di unnamedraggiungere la Libia, perché lì avrebbe potuto guadagnare facilmente. La notte stessa in cui arrivò  a Tripoli assieme ad altri fu arrestato dalla polizia, dove per sette lunghi mesi fu torturato e picchiato. In prigione non poteva muoversi perché il carcere era sovraffollato e e le uniche cose che mangiavano erano un pezzo di pane con formaggio. «Un giorno qualcuno mi salvò la vita». Un suo connazionale pagò per farlo uscire di prigione, ma naturalmente il ragazzo dovette lavorare per rimborsargli i soldi. Per circa sei mesi lavorò in un villaggio in mezzo al deserto come pastore e i soldi che guadagnò servirono per pagarsi il viaggio della sua ultima speranza. «La barca era piccola. Credevo di morire quelle lunghe notti perché il gommone continuava a essere colpito dalle onde altissime. Per me era l’inferno e continuavo a pensare al mio lungo viaggio, alle sofferenze che ho subito, a mia moglie e i miei due bambini piccoli che sono ancora in Mali. Poi ho visto un’imbarcazione che ci ha salvato e portato nel Porto di Lampedusa. Mentre ringraziavo quegli uomini, che per me erano angeli, piangevo di gioia per essere sopravvissuto».

Salah, la chiameremo così, è l’unica ragazza che ho trovato. Viene dal Senegal e ha 16 anni. Ha perso i suoi genitori quando era piccola e abitava con un vecchio zio. Nel 2012 decide di scappare dal Senegal su consiglio di un amico che le racconta di quanto bella sia l’Europa. Lascia il Senegal e raggiunge l’Algeria, dove lavorerà per circa un anno. «Ho trovato lavoro come domestica presso una ricca famiglia e venivo sfruttata e maltrattata. Potevo mangiare solo una volta al giorno un pochino di riso e di pane. La notte riuscivo per fortuna a entrare in cucina e mangiare i resti della cena che buttavano nella spazzatura». Dopo l’Algeria arriva in Libia e per lei sarà l’inizio del terrore. Arrivata a Tripoli inizia a cercare lavoro per poter affrontare le spese del viaggio, e, dopo essere stata aggirata da due uomini, viene rinchiusa in una casa e violentata per quasi un anno e mezzo. «La mattina dovevo lavorare in una piccola fabbrica di vestiti, mentre la sera ero costretta a prostituirmi. Sono riuscita a scappare e rubare dei soldi a un cliente. Ho pagato un uomo che mi ha portata nel porto di Tripoli e li ho preso un piccolo peschereccio: eravamo circa 200 e tutti urlavano per la paura di affondare in mare. Ma non mi importava, volevo solo mettere fine a quelle violenze e quel mare tempestoso era niente in confronto alle violenze e al terrore che ho subito».