Non c’è crescita senza valorizzazione dell’istruzione

Voluta dall’ufficio scolastico provinciale di Palermo l’11 maggio scorso, la sospensione della professoressa Rosa Maria Dell’Aria, tornata in aula in questi giorni, ha segnato uno dei momenti di maggiore mobilitazione del mese scorso. Nelle settimane che hanno seguito l’allontanamento da scuola della docente, numerose sono state le organizzazioni studentesche e i sindacati degli insegnanti che hanno manifestato pubblicamente la loro solidarietà, denunciando al contrario la decisione dell’ufficio scolastico, percepita come una violazione alle libertà di espressione e pensiero sancite dall’articolo 21 della Costituzione. In un clima politico e sociale di forte tensione l’episodio riaccende l’eterno dibattito volto a indagare il legame tra scuola e politica, istruzione e formazione.

Se si accetta che il personale sia politico, come suggeriva Hannah Arendt, allora appare evidente come di fatto non ci sia molto su cui discutere. Precludere la libera circolazione di idee all’interno di un istituto, la cui umile presunzione è quella di formare i cittadini rappresenta inevitabilmente un grave errore da parte del sistema scolastico. Non si può pensare una scuola apolitica da cui rimanga esclusa l’analisi della attualità in cui gli studenti, volenti o nolenti, sono chiamati quotidianamente ad esistere. Per questo motivo dunque l’istituzione scolastica, intesa come luogo di formazione, non può limitare la propria attività educativa alla presentazione di programmi «scolasticamente corretti» redatti da ministeri che scambiano la scuola per una fabbrica di conoscenze nozionistiche. 

«È una scelta decisiva di civiltà quella sul modello che si sceglie tra educazione e informazione», ha affermato Massimo Cacciari durante un ciclo di conferenze dal titolo «Educare al limite». Scegliendo infatti l’informazione come fine ultimo della scuola  si finisce per svilirne irrimediabilmente la funzione sociale e culturale, promuovendo l’idea di un’istituzione senza tempo si nega la possibilità che vi possa essere spazio, al suo interno, per lo sviluppo di uno spirito critico indispensabile per abitare nella civiltà. Nel momento in cui si prende la decisione di sospendere un’insegnante per aver chiesto ai suoi alunni di interpretare attivamente la realtà che li circonda, si sta offrendo una preoccupante interpretazione di quello che deve essere il ruolo della scuola nei confronti dei suoi principali fruitori.

In questo senso i fatti di Palermo si presentano come il più perfetto dei paradossi: nell’Italia del governo gialloverde, il governo del cambiamento, i tagli da 4 miliardi di euro all’istruzione pubblica previsti dalla manovra finanziaria mettono in serio pericolo l’ultimo baluardo, forse il più solido, su cui si sarebbero potute porre le basi per il vero rinnovamento. Se fallisce la scuola, non è esagerato dire che a fallire sia piuttosto l’intero sistema culturale di un Paese. Se dunque lo studio del latino, della matematica e della storia devono permettere di aprire la mente e fornire strumenti per interpretare la contemporaneità, precludere agli studenti la possibilità di conoscerla direttamente è quanto di più diseducativo si possa insegnare alle nuove generazioni. Non può esserci un futuro di crescita, sia essa puramente economica o di civiltà, per un’Italia che si ostina a non voler riconoscere l’enorme forza rigeneratrice racchiusa tra le mura di un edificio scolastico.