Onlus e Ong riunite per l’integrazione

«Nuove finestre sul mondo» è un progetto di sensibilizzazione e informazione al quale aderiscono alcune Ong e Onlus che hanno deciso di operare insieme su un tema. Il tema è quello dei massicci flussi di migranti che il nostro continente vede arrivare, persone che scappano da guerre e carestie, da situazioni che rendono impossibile la vita nel proprio paese d’origine. Questo progetto ha, appunto, la finalità di sensibilizzare e coinvolgere il mondo dei giovani sulle problematiche connesse a immigrati e rifugiati e di educarli alla convivenza pacifica, ai diritti umani e civili e all’intercultura.

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Materiale didattico di «Nuove finestre sul mondo», clicca per ingrandire

Cesvitem Onlus è un’organizzazione non governativa con sede a Mirano (Venezia) che si occupa di diritti umani e che partecipa al progetto «Nuove finestre sul mondo», organizzando dunque incontri nelle scuole superiori del paese, cercando così di convincere i giovani che la diversità culturale non è un problema, ma spesso si rivela una potenziale ricchezza.
Partecipo in veste di stagista presso l’Ong a uno degli incontri organizzati in scuola superiore di Mirano. Il presidente dell’organizzazione inizia spiegando ai ragazzi chi è il Cesvitem, di cosa si occupa e quali sono i suoi obiettivi, per poi collegarsi all’argomento dei fenomeni migratori, nel tentativo di far capire ai ragazzi quanto importante sia la cooperazione internazionale per trovare soluzioni positive e attive in questo campo. Sono ragazzi di circa 18 anni, la loro attenzione non è completa, probabilmente non sentono l’argomento così tanto vicino alla loro esperienza. Poi, però, qualcosa li cattura e a farlo è la testimonianza di Abdù, un ragazzo di 21 anni che viene dal sud del Senegal e si trova in Italia per chiedere asilo politico poiché nel suo paese di provenienza è in corso una ribellione armata contro il governo e la popolazione, fatto che rende impossibile vivere una vita considerabile normale.
«Da quando sono nato, e ancora oggi, nel mio paese è in corso una specie di guerra civile, i ribelli vengono nelle nostre case e rubano le nostre risorse, le nostre ragazze, le nostre vite. Così sono scappato dal Senegal e mi sono diretto verso la Libia per trovare un lavoro. Sono arrivato in Libia attraverso una strada molto difficile, per il primo tratto del viaggio ci hanno caricati su una macchina, ma poi ci hanno lasciati a piedi e abbiamo dovuto camminare per giorni. I miei genitori avevano pagato tanto denaro per farmi fare questo viaggio, ma non mi ricordo esattamente la cifra che ci aveva chiesto la carovana. 
Quando sono arrivato in Libia per fortuna ho trovato un lavoro come muratore, non ero in regola, ma riuscivo a guadagnare un po’ di soldi per vivere. Una sera sono tornato a casa dal lavoro un po’ più tardi del solito e ho trovato la polizia che mi aspettava per un controllo, ma io non avevo documenti, così mi hanno imprigionato. Io sapevo che in carcere si resta fino a quando non si riesce a pagare una cifra adeguata per uscire, e tutti sanno anche che non riusciranno mai a pagare quella cifra. Poi il regime di Gheddafi è finito, e io sono riuscito ad uscire da quella situazione difficile e disumana. Il capo del carcere mi ha portato a casa sua per lavorare e sono stato due mesi lì, poi lui mi ha lasciato andare» Abdù è in difficoltà, non ricorda con piacere questi momenti, ma è contento che qualcuno sia interessato ad ascoltare la sua storia, così continua: «Quando il capo del carcere mi ha lasciato andare ero spaesato, non sapevo dove andare e cosa fare. Per tornare indietro dovevo pagare una cifra che non possedevo, così mi sono ritrovato vicino al mare, in un posto dove molta gente aspettava di essere trasportata in Italia, ovviamente a pagamento. Ci hanno imbarcato a forza su una barca piccolissima, eravamo 90 persone e siamo stati in mare tre giorni. Nessuno parlava, nessuno mangiava, nessuno beveva. trattato-Schengen-immigrati_o_su_horizontal_fixedSulla barca non si faceva niente. Siamo arrivati in Italia, ci hanno soccorso e noi abbiamo ringraziato per essere ancora vivi. Sono successe tante cose, che faccio fatica anche a ricordare e poi mi sono ritrovato a Mirano. Sto aspettando i documenti, che ci mettono tanto ad arrivare e io non posso fare quasi niente. Quando arriveranno i documenti voglio trovare un lavoro, ma qui è difficile, tutti ti guardano male e la cosa che non mi piace dell’Italia è il razzismo. A volte ho paura, ma non so dove andare.»
Abdù finisce di raccontare la sua testimonianza e i ragazzi sono a bocca aperta, in classe non vola una mosca, sono tutti attoniti nell’ascoltare la storia di qualcuno che ha vissuto per davvero quelle notizie che si tendono a sentire solo in televisione. Intervengono in una discussione che finisce con l’obiettivo e l’impegno di essere più coinvolgenti e aperti, con il desiderio di creare quella «generazione del futuro» che non discrimina e resta umana. È un progetto indubbiamente ambizioso e difficile quello che queste organizzazioni stanno portando avanti, ma che getta semi di speranza in un mondo ancora troppo chiuso, cercando di far nascere sentimenti nuovi, di integrazione e di convivenza solidale. Noi ci crediamo.

Anna Toniolo