Perché dobbiamo essere antieuropeisti: diplomazia, portami via

La totale mancanza di solidarietà tra i diversi Stati dell’UE si scorge anche nell’attività diplomatica. A 63 anni dalla firma del trattato di Roma e 28 anni dopo Maastricht, si può affermare senza timore di smentita che una comune politica estera europea semplicemente non esiste. Pare che questo problema fosse già noto negli anni Settanta, quando si attribuì – falsamente – ad Henry Kissinger un dubbio amletico: a chi devo telefonare per parlare con l’Europa? La battuta, pur mai pronunciata dallo stratega statunitense, è pertinente. In quelle poche occasioni in cui ha agito di concerto, l’UE è riuscita nella difficile impresa di peggiorare i rapporti contemporaneamente con USA, Russia e Cina; è rimasta totalmente assente in Libia –nonostante la guerra civile sia scoppiata nel 2011 su istigazione proprio di due Stati europeisti – dove, per gli interessi contrastanti dei membri, non è riuscita a produrre nemmeno lo straccio d’una dichiarazione pro-forma comune; non ha giocato nessun ruolo in Siria, nonostante i circa 10 miliardi di euro donati al popolo siriano; non è riuscita non dico a imporre ma nemmeno a far discutere la sua proposta sulla questione palestinese. Le occasioni in cui gli Stati europeisti si comportano da rivali sono moltissime; basti pensare alle varie e recenti schermaglie tra Italia e Francia: la competizione fra l’italiana ENI e la francese Total in Africa, l’appoggio del governo transalpino al generale Haftar, le accuse di neocolonialismo lanciate da Di Maio al «franco delle colonie», le polemiche sull’estradizione dei terroristi e la presunta ingerenza del governo italiano sulla questione dei Gilet Gialli hanno addirittura indotto Parigi a ritirare il suo ambasciatore a Roma (7 febbraio 2019). E questi sarebbero due Stati alleati, anzi due paradigmi di un unico Stato!

Lo sapevano, gli Stati fondatori, che sarebbero andati incontro a questa situazione, tutt’altro che coesa? Sì, lo sapevano. Ed è per questo che hanno creato un sistema di pesi e contrappesi volto a rendere debole e sfuggente la competenza dell’Unione europea in politica estera e sicurezza comune. Ce lo spiega Piero Cecchinato: l’attività diplomatica è di competenza ibrida, in parte comunitaria e in parte lasciata alla libera interpretazione dei singoli Stati. Ma anche la definizione degli ambiti di politica estera dell’Ue non è univoca, bensì lasciata al metodo intergovernativo: «La politica estera e di sicurezza comune è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all’unanimità» (art. 24 TUE). Le possibili discrasie tra i due Consigli e la regola dell’unanimità, con il conseguente potere di veto per ciascun paese che ne discende, fanno il resto per rendere sfumata e inconcludente una seria azione in politica estera dell’Unione.

Lo storico francese Pierre Gaxotte, in un suo saggio sulla Rivoluzione francese, espresse un interessante punto di vista sugli Stati pre-1789: spesso, essi avevano problemi fiscali perché erano sommersi da migliaia di leggi, norme e tradizioni locali che erano tenuti ad osservare. Ne derivava l’impossibilità di creare un diritto nazionale applicabile, di imporre e riscuotere tasse, di impedire l’accentramento della ricchezza nelle mani di poche e privilegiatissime famiglie. L’Unione Europea rischia di fare la stessa fine: le sue leggi sono più di 19.000 (avete letto bene: diciannovemila. È possibile acquistare la collezione di questo orgasmo burocratico in 17 volumi da 1000 pagine ciascuno. Il prezzo? Appena 8000 €). Avere tante norme costa e questo è un modo piuttosto stupido di scialare i soldi dei contribuenti. E, sia detto en passant, il carrozzone europeo è tutto un grande spreco: l’intero circo dell’UE si sposta da Bruxelles a Strasburgo a cadenza settimanale; i burocrati dell’UE godono di ogni tipo di benefici per fare praticamente tutto; non c’è una settimana in cui non venga segnalato qualche scandalo su fondi travisati. L’UE sta bruciando fiumi di denaro e noi stiamo pagando per questo.

Democrazia no, solidarietà no, miglioramento economico no, diplomazia comune no, efficienza no. La storia dell’Unione Europea è la descrizione di un fallimento totale, senza appello. La domanda con cui giungiamo alla conclusione è però questa: si può tornare indietro? Immaginiamo che si siano posti questa domanda tutti quei popoli illuminati che per ragioni militari, politiche o dinastiche hanno perso la loro indipendenza. Si poteva tornare indietro dall’Impero romano? E dal trattato di Tordesillas? E dal Congresso di Vienna? E dall’URSS e dalla Jugoslavia? Sì, sì e ancora sì. Non sarà facile. Ma si può, la Brexit sta lì a dimostrarlo. Basta volerlo. E lottare.

 

Francesco Bennardo