Perché dobbiamo essere antieuropeisti: la lingua sbatte, il denaro duole

L’antropologa Ida Magli diceva che i burocrati europeisti sono degli architetti che hanno costruito un palazzo partendo dal tetto e non dalle fondamenta. Nella metafora usata dall’antropologa, le fondamenta – invisibili e per questo meno appariscenti, ma decisamente necessarie per garantire stabilità all’edificio – sono i sentimenti, le lingue, le aspirazioni, le patrie; il tetto – oggetto concreto e tangibile – sono i soldi, la moneta. Ma anche limitandoci al linguaggio della finanza, continua la studiosa romana, la bocciatura dell’Unione Europea è palese: quando un’azienda si quota in borsa, in base al suo rendimento si dice che il mercato crede o non crede in lei; nel primo anno e mezzo della sua storia, l’Euro perse circa il 30% del suo valore. Il mercato quindi, non gli credeva. Perché? Perché non può essere forte la moneta di uno Stato che non esiste! E lo Stato non esiste perché non sono state create le fondamenta, e le fondamenta non sono state create perché – per motivi storici, geografici, economici e culturali – non si possono creare, se non artificiosamente. L’uroboro europeista è così servito.

Uno dei fattori che cementano l’unione di un popolo è la sua lingua: l’Unione Europea ha 24 lingue ufficiali, una roba mai vista neppure nei remotissimi imperi antichi. Quella che dovrebbe essere la lingua franca – ma che di fatto si configura come lingua pivot – è l’inglese, ossia l’idioma nazionale di uno Stato che non fa parte dell’Unione Europea. Essere costretti a ragionare in una lingua che non è la propria porta irrimediabilmente a un inaridimento della produzione letteraria, artistica e musicale: quando il latino venne sostituito dal volgare, qualche capolavoro nella lingua di Virgilio saltò ancora fuori, ma sotto forma di trattati teologici, scientifici o notarili; il popolo minuto, ormai, aveva cambiato rotta e a poco a poco il tessuto morale e culturale su cui si fondava la lingua latina venne fiaccato fino a farla praticamente scomparire.

Dai tempi di Craxi a quelli di Prodi, la politica italiana è stata pesantemente condizionata dall’ingresso in Europa e dal rispetto dei parametri di Maastricht: sembrava che il popolo dovesse compiere quell’ultimo, decisivo passo in avanti che gli avrebbe aperto le porte del Paradiso eterno. Il leader dell’Ulivo, in particolare, era andato al potere con lo slogan «Vi porterò in Europa» e, per raggiungere l’obiettivo, nel settembre del 1996 emanò la «supertassa» per l’Europa. Secondo la ricostruzione di un quotidiano certamente a lui non ostile, ossia La Repubblica, la supertassa comportò rincari della benzina; blocco delle pensioni e degli stipendi degli statali; tagli alle Ferrovie, alle Poste, all’Anas e – udite, udite – alla Sanità (articolo di Gennaro Schettino del 27 settembre 1996)! Più del 56% degli italiani era contrario al balzello europeista, ma ovviamente chi di dovere non ascoltò questa voce, seppur largamente maggioritaria. Si preferì dar seguito alle parole di Gianni Agnelli, entusiasta della nuova imposta: «Maastricht val bene una tassa».

Com’è noto, l’adozione dell’Euro priva completamente gli Stati della sovranità monetaria, ossia del controllo sull’emissione del denaro e sulla spesa pubblica, poiché questa materia è completamente delegata alla Banca Centrale Europea. Questo vuole dire che se lo Stato italiano ha bisogno di soldi, per esempio per comprare le attrezzature contro il Coronavirus, non può creare il denaro per farlo, ma deve tassare i cittadini o chiedere un prestito (pagando un interesse) al Mercato, il quale lo prende in ultima istanza dalla BCE. Il giornalista Giovanni Dall’Orto ha spiegato l’attuazione di questo procedimento due semplici domande. Prima domanda: perché lo Stato non può creare autonomamente questi soldi, evitando di pagare l’interesse? Risposta: perché ciò ci è stato imposto dalla Francia e dalla Germania in nome della «stabilità». Seconda domanda: perché i nostri politici hanno accettato? Per tre motivi: favorire i privati a discapito dello Stato; cominciare un lavorio volto a sgretolare i diritti dei lavoratori (si vedano le sopracitate conseguenze dell’eurotassa); perché sapevano che gli «alleati» francotedeschi non avrebbero concesso l’apertura completa dei loro mercati alle nostre merci (che sarebbero diventate troppo competitive). Per questo i «partner» europei vollero – e i politici italiani accettarono – che l’euro fosse penalizzante e svantaggioso per l’Italia.

Di fronte all’emergenza Coronavirus, Roma ha chiesto agli «amici» di farsi garanti di un finanziamento emesso per aiutare soltanto alcuni, ma – alla faccia della solidarietà – gli Stati non bisognosi del finanziamento si sono opposti. In questa situazione di stallo, prosegue ancora Dall’Orto, ci sono tre possibili scenari:  la BCE compra a fondo perduto i buoni del Tesoro emessi dagli Stati in difficoltà;  la BCE emette dei titoli (gli eurobond) per gli Stati in difficoltà, su cui grazie alla garanzia-euro gli interessi da corrispondere saranno più bassi; gli italiani affidano i propri risparmi ai banchieri tedeschi e vengono costretti a vendere le proprie case per ripagare i debiti dello Stato. Il primo punto è stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale tedesca, la quale s’è affrettata a specificare che anche se fosse approvato sarebbe nullo in Germania (ma non eravamo un unico popolo e un’unica patria?); la seconda eventualità è stata spernacchiata dalle nazioni combinate meglio di noi, in primis l’Olanda, le quali hanno preteso l’utilizzo del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), che concede prestiti a patto che si obbedisca agli ordini impartiti da un comitato nominato dai creditori, mirato a smantellare le «spese inutili», come per la Sanità e l’istruzione (ci si augura con tutto il cuore che la classe politica italiana capisca il pericolo che ne ricaveremmo); la terza eventualità – avallata pubblicamente da Pierluigi Bersani – ci renderebbe ipso facto uno Stato fantoccio di Berlino: non sembra ci sia bisogno di aggiungere altro.

(Continua…)

Francesco Bennardo