Ci si potrebbe salvare da soli

Mi siedo delicatamente sulla sdraio in giardino, sono quasi le otto di sera, e, in questi giorni di fine settembre, già le giornate sono sempre più scure. Presto arriva il buio e la notte ti abbraccia quando ancora il sonno non ha bussato.
Con la mia solita sensibilità, rimango condizionata da questo cambiamenti e anche il mio animo, si incupisce più presto. Ancora prima di cena, quando vorrei essere di buon umore, per potermi nutrire con amore. Cosa ancora difficile da fare, per me.
Però non è ancora del tutto nero, riesco a vedere bene ciò che mi circonda. Mia sorella ha appena tirato fuori le mie vecchie cuffie per la musica. Sono di quelle grandi, che si indossano come un cerchietto imbottito. Mi tiro indietro i capelli, è già sento il mondo più ovattato. Morbide premono sulle orecchie. Mi piace. Scaldano quasi.
Adesso scelgo una canzone. Accendo pure una sigaretta, devo muovermi a farne partire una perché voglio fumare con la musica nel cervello. Ma la scelta del brano, è essenziale.
Mi lascio guidare dall’istinto. Vado a ripescare uno di quei brani che ho addosso come un tatuaggio, solo che ogni volta che li ascolto, bruciano. Ma è un dolore piacevole, un dolce sanguinare. Fuoriescono note che in realtà sono immagini, odori. Persone.
Occhi.
Come gli occhi di quel lui,  di quell’azzurro fluorescente. Mi ricordavano l’aurora boreale, anche se non ne ho mai vista una dal vivo.
Mi facevano girare la testa e ribaltare l’anima, che, poverina, quando li incrociava, era come se ci inciampasse e iniziasse a rotolare giù dalle scale. Era quasi faticoso soffermarcisi dentro. Mi risucchiavano l’amore in una maniera esasperata è una volta distolto lo sguardo mi sentivo debole e vuota… Da quanto mi avessero divorato dentro.
Altra canzone. Altri occhi. Questa volta di un castano di bosco, con qualche ombra di verde. Erano occhi estremamente decisi. Attraenti, ma mi spaventavano. Perché sapevano recitare, e io sono sempre stata una persona ingenua. Oltre che innamorata degli occhi.
Cambio canzone.
Lui. Con quei pianeti grandi e rotondi verdi come la vita. Quegli occhi a cui mi sono aggrappata perché erano iridi che parlavano, dicevano: «Sei bella» e mi stringevano forte quando tutti i miei pezzetti erano ancor sparsi in giro. Nel buio, nel sudicio. Io seguii le mie lanterne verdi. C’era puzza di amore… E poi si spensero. Con la fine della canzone.
Adesso mi sfilo le cuffie.
Sento un certo languore.
Sarà fame.
Fame d’amore?
C’era un tempo in cui ero così deperita, era per l’assenza di affetto  che elemosinavo attenzioni. Contatti. Calore.
Annaspavo a terra cercando di leccare le minime briciole come un animale in fin di vita.
E me ne bastava una, di quelle briciole, per aprire una voragine nello stomaco del mio cuore.
Fame. Fame. Fame.
Fame.
Sempre di più.
La bile che mi digeriva l’anima e risaliva per l’esofago delle emozioni corrodendomi i pensieri.
Fame.
Fame da impazzire.
Ogni briciola che mi sudavo, apriva una nuova voragine.
E la voragine, divorava me.
Lo capisco ora, con le cuffie tra le mani e la musica che ancora passeggia tra i miei gesti, che avevo sbagliato tutto.
Ci si nutre anche di altro.
Ci si salva, ci si salva da soli.
Esiste la musica.
Le risate. Gli amici. L’arte.
I fiori. La mamma.
Il papà. I colori.
La sorella.
Il caffè.
I libri. E le parole.
Adesso sento un certo languore, mi preparerò qualcosa di buono per cena. Perché ora l’ho capito.
Ci si potrebbe salvare da soli.
Ritrovando nutrimento dall’amore… Però
dal proprio.