Ricordare in poesia la crudeltà della guerra

O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci non ha fine l’ora
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio.
Grazie, fratello.

Questi sono i versi di Clemente Rebora, poeta e sacerdote, autore di «Viatico» (nella Chiesa Cattolica il Viatico è il sacramento dell’Eucarestia dato ai credenti in procinto di morire), una poesia che ripercorre e vuol far scoprire alle generazioni future la crudeltà della guerra.

La guerra è cominciata oramai da cinque mesi quando Rebora viene chiamato a prestare servizio nel 72° reggimento di fanteria e a combattere sul monte Pogdora (vicino all’attuale confine con la Slovenia).
Gli Austro-ungarici hanno posizionato la loro artiglieria sul versante sud-ovest del monte Gabriele, sul versante sud-est del Monte San Daniele e sul versante est del Monte Santo. Riescono così a dominare tutto il versante Nord-Est del Monte Pogdora. Gli schieramenti sono divisi dal fiume Isonzo. All’improvviso un soldato italiano, oltre la trincea, viene fulminato da una raffica di proiettili alle gambe, rimanendo così paralizzato al suolo. In uno stato primario di shock non si rende conto dell’accaduto, ma passano pochi istanti e i suoi compagni di reggimento odono i suoi lamenti provenire da una distanza di circa 20m dalla posizione in cui sono nascosti.

Suonano sirene, il cielo è coperto, la terra è umida e l’aria è impregnata di polvere da sparo. Continua il lamento. Rischiare la propria vita per portare in salvo quella di un altro ragazzo già ferito o restare nascosti evitando il peggio? Questo è il pensiero che attanaglia tre soldati che si trovano vicino al ragazzo a terra. Partono tutti e tre assieme, in riga, per poterlo salvare il prima possibile. Si sentono le fucilate e le pallottole dell’artiglieria colpiscono il terreno sibilando nell’aria. Nulla fa silenzio. Si incoraggiano gli uni gli altri.

A una distanza di sette metri cade il primo soldato colpito all’altezza del torace ed il soldato alla sua destra non fa in tempo a voltarsi che viene colpito all’altezza del bacino. Due soldati a terra e uno in piedi, in una missione di salvataggio che era cominciata appena trenta secondi prima. Sconcertato dalle morti dei suoi due compagni non sapeva più se tornare indietro o continuare a cercare di salvare il ragazzo ferito alle gambe, ma nel frattempo rimane colpito prima al polpaccio destro e poi alla tempia.
Sono passati esattamente due minuti e trentacinque secondi da quando il primo ragazzo è stato ferito fino alla morte del quarto soldato. Due minuti e trentacinque secondi per cancellare 96 anni di vita complessivi di quattro persone. A questo episodio ha assistito Rebora, scrivendone successivamente la poesia che abbiamo riportato.

Interessante è ciò che Rebora intende per «Agonia». L’agonia per il ragazzo colpito è la morte che gli si sta avvicinando e spera che la raggiunga il prima possibile, affinchè non possa più essere testimone dell’agonia di tutte le altre migliaia di uomini intorno a lui. Un’agonia, in questo caso, chiamata «guerra».
La conclusione, «Grazie, fratello», sta a significare un ringraziamento per avergli fatto capire che anche nel momento più difficile c’è sempre qualcuno pronto ad aiutare il prossimo. Rebora ringrazia il soldato anche per essersi sacrificato per la patria.