Schede truccate in Michigan e Georgia? No, è l’effetto delle riforme di Trump

Anche volendo rimanere scaramantici, ormai è proprio il caso di dirlo: gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente e questo è Joe Biden. Dal 3 novembre ad oggi gli scrutini si sono protratti in quella che addetti e appassionati di politica hanno vissuto come una straziante e interminabile corsa all’ultima scheda elettorale. Tra il voto via posta, l’elevata affluenza alle urne e il complicato sistema elettorale statunitense i tempi si sono inevitabilmente allungati tenendo con il fiato sospeso quanti, oltreoceano e nel mondo, aspettavano con ansia di sapere chi per i prossimi quattro anni avrebbe occupato la Casa Bianca. Perché se è vero che Biden era stato dato come favorito quasi fin da subito, d’altro canto la strada verso la vittoria è stata tutt’altro che priva di imprevisti e colpi di scena che la dicono lunga sul contesto politico e sociale degli Stati Uniti.

Partiamo dalle basi: benché il 3 novembre sia comunemente inteso come il giorno in cui gli americani si recano alle urne, le cose stanno diversamente. Ufficialmente il 3 novembre è piuttosto l’ultimo di una serie di giorni, di numero variabile tra gli Stati, in cui è data la possibilità agli americani di esercitare il proprio diritto di voto dopo, ovviamente, essersi registrati per farlo. Tutto sommato un bel vantaggio che in tempi normali garantisce a tutti di ritagliarsi un momento per andare a votare, controbilanciando lo sforzo richiesto invece per la registrazione al voto e che in tempi di pandemia ha permesso che si evitassero le tradizionali lunghe code fuori dai seggi . Così organizzati, però, al fatidico 3 novembre e all’inizio dello spoglio ci si arriva con una mole difficilmente gestibile di schede elettorali, comprensiva sia di quelle compilate nei seggi sia di quelle inviate via posta e che, a questa tornata elettorale, ha causato ritardi nei conteggi e sbalorditivi cambi di rotta in alcuni Stati chiave.

Chi si trovasse a fare il tifo per Biden ha certamente vissuto un momento di euforia e commozione quando il Michigan, di cui già si erano scrutinate più del 90% delle schede, si è tinto di blu e quando, fatto ancora più improvviso e sorprendente, lo stesso è avvenuto è avvenuto in Georgia con il 99% delle schede scrutinate. Reazione diversa deve essere stata quella del presidente in carica Trump, che già in campagna elettorale aveva messo in guardia il proprio elettorato dalla minaccia del voto per posta e differito che i democratici avrebbero senza alcun dubbio utilizzato come strumento per imbrogliare le carte a loro favore. Più di una volta Trump ha minacciato di non accettare il risultato delle elezioni, in particolare l’esito degli scrutini in stati tendenzialmente repubblicani come il Michigan, qualora avesse avuto il sospetto che qualcosa non quadrava, ovvero ogni qual volta la sorte non l’avesse assistito.

La verità è che limitarsi alla visione di uno Stato come storicamente repubblicano o democratico, rosso o blu sulla cartina, non basta né per raggiungere una comprensione soddisfacente delle dinamiche interne né tantomeno per rivendicarne l’influenza. Nonostante il sistema elettorale statunitense favorisca letteralmente una lotta all’ultima scheda tra i due sfidanti, la cui vittoria dipende non dal numero di voti ricevuti in termini assoluti di popolazione, ma da quello complessivo dei cosiddetti grandi elettori degli Stati in cui il candidato abbia ottenuto la maggioranza, a fare la differenza è comunque il singolo cittadino che si reca alle urne. A tingere di azzurro Michigan e Georgia non sono state schede truccate, come vorrebbe Trump, ma i cittadini di quei distretti in cui delle riforme di Trump non se ne può più.