Siciliacque e l’oro blu al tempo della privatizzazione

Esiste una terra interamente bagnata dal mare, dove, scivolando tra rilievi rocciosi, giunge nella case dei suoi abitanti l’acqua più «salata» d’Italia. A 500 euro ammonta la tariffa annuale riservata alla famiglie assettate, quando nell’opulenta Milano la spesa familiare non supera i 140 euro e la media nazionale non supera la quota di 426 euro. Un patrimonio idrico costituito da 7 miliardi di metri cubi, per la cui gestione ogni anno si raccatta un bottino dal valore di 700 milioni di euro e investimenti pubblici che segnano i 2 miliardi di euro. La vittima di cui stiamo parlando è la Sicilia, il carnefice di questa storia è la privatizzazione selvaggia.

Tutto cominciò nel 2004, quando, a seguito della messa in liquidazione di EAS (Ente Acquedotti Siciliani), dietro le invitanti promesse dell’allora Presidente Totò Cuffaro e la promozione progettuale dell’Unione Europea, si fece strada la società mista Siciliacque, presentata al fiorente pubblico di siciliani paganti come strumento per accedere ad una più efficiente manutenzione delle inadeguate infrastrutture idriche e fognarie, nel tentativo di appianare la frammentazione del sistema idrico regionale, di assicurare un pratico superamento delle crisi idriche che ogni anno travagliavano l’isola nella stagione estiva.

A oggi, quali sono, pertanto, i miracolosi risultati insorti?
Stando ad uno studio dell’associazione del settore Utilitatis, il peso dell’acquisto dell’acqua all’ingrosso presente nella bolletta di un cittadino italiano è pari al 6 per cento, mentre in Sicilia per i soli distributori al dettaglio, comprendenti una vasta coltre di società private quali Enna Acqua, Sie e Caltacqua, il medesimo valore vola al 35 per cento. Ad incassare, infatti, all’ingrosso per ogni metro cubo di acqua ben 0,69 euro, contro i 0,2 euro richiesti nella Marche, è proprio Siciliacque, che indica tra i fattori responsabili del caro prezzo i costi e gli investimenti previsti per il trasporto delle acque dalle zone costiere al centro dell’isola, così come le gravi inadempienze a carico dei suoi acquirenti,dichiarati incapaci nella gestione del proprio tratto di rete, ove si apprende l’esistenza di dispersioni fino al 50 per cento.

Nell’ultimo decennio, infatti, la dispersione delle reti idriche, capace di svolgere, in tempi di elevata siccità, un ruolo delicato nel sopraggiungere delle numerose crisi idriche, non ha cessato di interrompersi e ha subito una crescita dell’8 per cento, la cui causa andrebbe innanzitutto ricondotta alle perdite subite nel tratto più fatiscente, ovvero quello risalente al periodo compreso fra il 1983 e il 1990, per il cui abbattimento i privati non si sono mai prodigati, nonché, in misura secondaria, alla non quantificabile incidenza dei furti d’acqua.

A più di un decennio della svolta, a 8 anni di distanza dal referendum popolare in cui il 54% degli elettori italiani disse basta a qualunque forma di privatizzazione, dopo il susseguirsi di cinque Presidenti di Regione e una sentenza della Corte Costituzionale che ha prontamente bollato come irricevibile una legge regionale che disciplini l’avvio della nuova pubblicizzazione del settore, continua, pertanto, a regnare incontrastato il gigante Siciliacque Spa, controllato per ¾ da Idrosicilia Spa, a sua volta composto dal colosso francese Veolia Water St (59,6%), fino al 2005 appartente all’area Vivendi del magnate Vincent Bolloré, da Enel (40%) e da Emit (0,1%).