«Sono innocente», una Rai contro la giustizia che sbaglia

Ha esordito su Rai Tre Sono innocente, la trasmissione condotta dal giornalista Alberto Matano che si pone come obiettivo la trattazione di una tematica pressoché inedita nella televisione italiana, quella relativa alle travagliate storie di persone che sono state incarcerate ingiustamente, in quanto, in un secondo momento, rivelatesi completamente estranee ai reati a loro contestati.
Probabilmente si ritrova un solo precedente, almeno per quanto concerne le reti Rai; parliamo della miniserie L’uomo sbagliato, con protagonista Beppe Fiorello. Il suo personaggio, realmente esistito, viene condannato in un processo per traffico di stupefacenti dal momento che tutto, a causa di fatali coincidenze a cui va sommandosi l’imperizia degli inquirenti, pare puntare il dito contro di lui. Ciononostante, dopo anni trascorsi in cella, riuscirà a provare la sua innocenza.
Purtroppo, di storie simili, tristemente reali pullula il nostro paese. Vicende sommerse, queste, ma dense di dolore, che nel format in questione, con l’aiuto di ricostruzioni messe in scena da attori e poi attraverso la viva voce di chi le ha vissute sulla propria pelle, sono uno schiaffo sul viso dei colpevolisti a tutti i costi.
È innegabile, infatti, che, messi di fronte alla notizia di un indagato o, ancora peggio, arrestato, siamo portati ad attribuirgli la responsabilità del reato imputatogli, guidati da sentimenti di giustizia che sfociano in un giustizialismo esasperato che ha il sapore di vendetta, anche aizzati dai cosiddetti processi mediatici  (che, in fondo, sono esattamente ciò che il pubblico richiede).
Spesso scatta questo meccanismo senza possedere nemmeno un’effettiva conoscenza dei fatti criminosi, perciò sarebbe troppo sperare che l’italiano medio si avvalesse della saggezza di attendere la sentenza di terzo grado come, invece, prevede il principio del garantismo che, almeno in teoria, vige in Italia.
Non ci  accorgiamo di quanto è pericoloso questo atteggiamento dilagante finché non ci immedesimiamo in una studentessa accusata di aver pestato un tassista, in una città da lei mai visitata, solo per una scheda Sim da cui è partita una telefonata e un errato riconoscimento da parte della vittima; oppure nell’imprenditore che viene incriminato per traffico di droga per via di una errata interpretazione di un’intercettazione. Sono esistenze lacerate dal giudizio ingiusto, dalla prova dell’isolamento, dalla privazione della libertà, dal dubbio che pesa su di loro benché scagionati.
Il peggio, forse, per loro, giunge una volta ritornati nelle loro case. La gente fa fatica a rendere nuovamente candida l’opinione infausta che si è costruita su una persona e lo Stato si rende nuovamente fonte di sofferenza; i processi di revisione con gli annessi risarcimenti pecuniari vengono, infatti, celebrati dopo molti anni e la fedina penale macchiata impedisce di riabilitarsi a tutti gli effetti: nessuno assumerebbe un condannato per omicidio.