Turismo sostenibile: ma che cavolo vuol dire?

Che cavolo vuol dire turismo sostenibile? Significa che la meccanica del turismo di massa è una regola superata a favore di una mentalità che accolga a piene mani la qualità, lo spendere del buon tempo e del proprio portafoglio in maniera ponderata e chiara. Partiamo dalla consapevolezza che il possibile contagio da Covid, il distacco della città e del tran tran urbano ci stanno portando ad allontanarci dalle dinamiche della vacanza all’italiana in cui ci si fiondava da un centro d’aggregazione ad un altro, conducendoci ora da un posto affollato ad un luogo con spazi aperti e rilassanti. Questo avviene un po’ per rispetto verso se stessi e la propria salute fisico/mentale, un po’ per il crescente interesse verso le aree verdi e la riscoperta dei paesaggi naturali, dovuti anche alla pandemia.

Il fenomeno delle masse turistiche tuttavia ha ben più di trent’anni di passato e matasse economiche alle spalle nel nostro Paese, tant’è che anche culturalmente è difficile da controvertere, un po’ per pigrizia, un po’ perché non conosciamo bene altri modi per fare business in maniera alternativa. Anche perché l’alternativa, in questo caso, richiede un totale rifacimento del turismo nostrano rispetto a come lo abbiamo conosciuto fino ad ora. Cambiare schemi e scenari è però necessario e doveroso, se vogliamo mantenere posti di lavoro, visioni di crescita e una posizione competitiva sul mercato mondiale.

Come farlo diventare realtà? Il lavoro è da compiere in maniera capillare, borgo per borgo e regione per regione. Il nostro Belpaese è complicato da gestire, ma lo è perché abbiamo tantissime meraviglie che neanche noi vediamo.

Il primo punto è quindi quello della divulgazione e del racconto: i posti vanno riscoperti. Il turista deve poter capire e divertirsi, scoprire sopra cosa è seduto e quale fortuna abbiamo nell’essere figli di queste terre.

Dopodiché, ci vuole la presenza sul territorio: le app e la tecnologia devono aiutare il turista, che non deve essere solo fruitore nel momento in cui decide di partire, ma continuamente tenuto al corrente di cosa lo aspetta, di cosa può fare, in modo che egli possa essere più informato e che il bacino d’accoglienza possa collaborare in modo più dettagliato e minuzioso. Questo vuol dire che dobbiamo iniziare a capire che non esiste un unico fenomeno turistico che si muove in base al periodo, ma che ci sono turisti ovunque, che c’è sempre qualcuno pronto a diventare viaggiatore.

Il terzo punto è il rispetto. Quanto è emerso dalla fermentazione sul tema stagionali ci sta facendo capire che dobbiamo iniziare a lasciare i pochi mesi di lavoro per poter fare gocciolare i turisti tutto l’anno.
È una questione di rispetto verso le fragilità di alcuni dei nostri territori, nonché dei lavoratori che avrebbero meno occasioni di essere sottopagati per orari fuori da ogni logica contrattuale.

Tuttavia, se ci si mette dalla parte delle imprese quanto detto prima sullo sgocciolamento non è sempre possibile (pensiamo alla stagione invernale/estiva), in particolare per quanto riguarda garantirsi entrate che possano permettere incassi e stipendi: un tema che passa dal racconto al concreto.

È proprio qui che entra in gioco l’unione di queste tre regole che devono essere inserite all’interno di una rete nazionale di imprese, aiutate da enti e dal Ministero dei beni culturali e del turismo, in modo che sia fattibile per un’impresa non convertire dall’oggi al domani il proprio business plan, rischiando posti di lavoro, ma che sia accompagnata in un percorso anche detto zip line che connetta tutti i punti distanti del nostro Paese, aiutandoli a lavorare per tutto l’anno.

Abbiamo la fortuna di avere fra le mani un Paese in cui tutte le stagioni possono essere vissute a pieno. Sfruttiamolo.