La voce spezzata di Anna Politkovskaja

Determinata e schietta, ostinata e calzante, Anna Politkovskaja era una giornalista russa convinta che l’unico dovere di un mestiere come il suo fosse quello di «scrivere quello che si vede». Purtroppo quello che un giornalista riesce a vedere, attraverso il suo lavoro, e che poi decide, o meglio, sente di dover raccontare per un dovere morale, non è sempre quello che chi sta al potere desidera mostrare al mondo.

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Anna lo sapeva bene, ma questo non l’ha mai fermata, non ha mai sentito il bisogno di smettere di raccontare la verità, nonostante le numerose minacce e attentati alla sua vita che ha dovuto subire.
Lo scenario è quello della Russia di fine Novecento e inizio del nuovo secolo, del Presidente Vladimir Putin, delle guerre in Cecenia, della strage di Beslan.
Anna Politkovskaja si laurea in giornalismo a Mosca nel 1980 e comincia la sua carriera inizialmente per alcune testate moscovite, lavorando per canali radio e TV e come cronista. Dal 1993 fino alla sua morte, lavora per il giornale russo Novaja Gazeta, riuscendo anche a pubblicare numerosi libri fortemente critici nei confronti del Presidente Putin e del governo russo, come per esempio La Russia di Putin. Proibito parlare o Cecenia, Beslan, Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin.
Durante la sua carriera si distingue per il costante impegno nell’ambito dei diritti umani, impegno che dimostrava non solo attraverso l’opposizione al Presidente, ma anche attraverso i suoi reportage dalla Cecenia.
Come si legge nella sua biografia, infatti, Anna Politkovskaja si recava in Cecenia per sostenere le popolazioni vittime della guerra e per farsi anna-politkovskaya-300x300testimone di quello scenario visitando ospedali e campi profughi, facendo interviste ai soldati, raccogliendo materiale per i suoi reportage che, taglienti e incisivi, non risparmiavano mai le autorità del governo russo e il loro operato.
Quando nel settembre del 2004 si verificò la «Strage di Beslan», un vero e proprio massacro avvenuto in un edificio scolastico che era stato sequestrato da alcuni fondamentalisti islamici, Anna Politkovskaja si stava recando nel luogo in aereo. A un certo punto viene colpita da un malore e perde i sensi, costringendo l’aereo a tornare indietro in modo tale da poter essere portata all’ospedale. Questo, che si suppone sia stato un tentativo di avvelenamento, non è il solo caso in cui la giornalista è stata attaccata, dovendo sopportare durante la sua vita numerose minacce di morte e altri episodi: il prezzo da pagare per aver scelto di «dare fastidio» alle persone che per troppo tempo rimanevano impunite. Lo stesso episodio di Beslan, non fu mai chiarito del tutto, anche perché i medici si videro costretti a distruggere i campioni del suo sangue per le analisi investigative.
Il 7 ottobre del 2006, giorno del compleanno del Presidente Vladimir Putin, Anna viene ritrovata morta nel suo appartamento, uccisa da quattro proiettili: venne fermata nella sua lotta contro le violazioni dei diritti umani e fatta tacere attraverso, evidentemente, l’unico modo in cui era possibile farla tacere.
Dopo la sua morte Sergheij Kovlov, leader di un movimento per i diritti civili, ha detto: «Penso che prima o poi il killer di Anna verrà arrestato; ma i mandanti mai e poi mai, per il semplice motivo che qui in Russia non è mai successo nulla di simile». E infatti, nonostante l’individuazione di alcuni possibili colpevoli, il tribunale moscovita ha emesso nei mesi successivi una sentenza di assoluzione per insufficienza di prove.
«Durante la sua carriera — scrisse Emmanuel Carrère — soltanto chi si interessava da vicino alle guerre cecene conosceva questa giornalista coraggiosa. Da un momento all’altro, dopo la sua morte, il suo volto dall’aria triste e deciso è diventato in Occidente un’icona della libertà di espressione».
Al funerale, avvenuto il 10 ottobre 2006, parteciparono più di mille persone, la maggior parte ammiratori e sostenitori del lavoro di Anna. L’unico politico italiano a parteciparvi fu il leader radicale Marco Pannella, scomparso ieri.
PolitkovskajaNessun esponente del governo russo prese parte alla cerimonia.
Il presidente Vladimir Putin, in un tentativo di interessamento alla vicenda, disse a proposito di Anna che «la sua morte ha creato più danni dei suoi scritti» e che per questo motivo i colpevoli non sarebbero rimasti impuniti. Al di là di tutto, Putin aveva proprio ragione: l’assassinio della giornalista ebbe una risonanza mondiale, mobilitando l’opinione pubblica, anche quella russa, nella direzione che probabilmente Anna stessa aveva desiderato per tutta la vita: aprire gli occhi di fronte ai fatti reali, non avere paura di affrontare la verità e diffondere il più possibile le notizie. E per il governo russo probabilmente non ci fu danno peggiore.
Il Committee to Protect Journalists conta dal 1992 ad oggi 56 giornalisti uccisi in Russia; altri rapporti di organizzazioni internazionali parlano di dozzine di omicidi. Le fonti russe invece, che si sono mobilitate soprattutto dopo la morte di Anna che ha dato il via ad una vera e propria sensibilizzazione sul tema, parlano di oltre 200 uccisioni e l’International Federation of Journalists, attraverso un’inchiesta, ha reso noto un database che documenta la morte o la sparizione in Russia di oltre 300 giornalisti.
In un clima come quello russo, in circostanze come la guerra in Cecenia e nelle condizioni politiche in cui viveva il paese, viene naturale considerare che per Anna quello della giornalista non era soltanto un mestiere, ma una vera e propria vocazione: sopportare durante la vita numerose minacce e attacchi alla propria persona, vedersi chiudere le porte in faccia in molti ambienti e nonostante tutto questo non arrendersi mai ai giganti del potere, pur sapendo di rischiare la vita, sono tutte cose che vanno oltre il semplice lavoro che si sceglie per guadagnarsi da vivere.
Alcuni hanno questo tipo di vocazione, e Anna Politkovskaja era sicuramente tra questi.