Australia, un modello di gestione dell’immigrazione da seguire?

Il 1991 è stato l’ultimo anno in cui il la crescita del PIL australiano ha avuto segno negativo: da allora il principale paese dell’ Oceania ha subito una immigrazione fortissima, al punto che,si calcola che il numero di abitanti sia praticamente raddoppiato e, secondo i maggiori economisti, queste ondate migratorie avrebbero protetto il paese da molti pericoli finanziari, inclusa l’ultima crisi economica, evitando in molte occasioni la recessione.

Quello australiano è un modello immigratorio relativamente semplice e si basa sul concetto di «skilled migrants», ovvero un sistema di punteggi per i migranti qualificati che qualifica il richiedente in base a età, lavoro e istruzione.
Dopo questo tipo di preselezione ci si sottopone ad un controllo sanitario e dei precedenti penali nel paese d’origine, infine si deve superare un test basato su conoscenza della lingua inglese e della costituzione.
Questa è grossomodo la prassi per coloro che intendono raggiungere l’Australia legalmente e nonostante la crescita del dissenso fra una parte della popolazione, la maggioranza riconosce che l’immigrazione sia in realtà una continua spinta per l’economia, tanto che, secondo Sun-Lin Ong, capo dell’Australian economic and fixed income strategy di Royal Bank of Canada «la politica migratoria australiana le ha dato finora un vantaggio rispetto agli altri Paesi sviluppati in termini di domanda, consumi e occupazione e la sfida della classe politica dirigente dev’essere quella di spiegare razionalmente e chiaramente perché sia importante non farsi suggestionare da discorsi anti-immigratori».

Se è vero però che questo modello sta dando risultati eccellenti ai governi di Canberra, lo è altrettanto il fatto che il grosso problema europeo rappresenta l’immigrazione illegale e non quella controllata dei canali ufficiali.
Anche in questo caso, l’Australia traccia una rotta da seguire, perseguendo una strenua lotta a tutto ciò che è considerato fuorilegge, sintetizzabile dalle parole di un noto slogan pubblicitario: «No way».

Nel corso degli anni, infatti, la politica di Canberra è stata sempre più inflessibile verso i tentativi di raggiungere le sue coste fuori dai canali ufficiali, soprattutto per quanto riguarda gli sbarchi via mare e questo perché l’Australia ha da sempre sostenuto che l’immigrazione clandestina fosse più un fenomeno criminale lesivo degli interessi nazionali, non una emergenza umanitaria.
Certo, i numeri australiani non sono imponenti come quelli che riguardano il Vecchio Continente, ma, considerati i 20000 sbarchi illegali nel solo 2013, non si può dire che non siano degni di rilievo.

La politica di respingimento australiana è inflessibile e si basa su massicci investimenti nella prevenzione, nel controllo delle coste e nelle comunicazioni pubblicitarie che mirano ad evitare le partenze, oltre che su accordi con paesi terzi e dai quali i migranti salpano (soprattutto Indonesia e Sri Lanka).
Il punto più controverso riguarda il confino dei migranti irregolari, che scatta quando le imbarcazioni sopra le quali si trovano non siano in grado di reggere il mare o riescono a toccare terra australiana: in questi casi i migranti vengono trasferiti in isole-stato, tra le quali le Manus, con la quale l’Australia ha preso accordi e, se muniti dei requisiti necessari per ottenere asilo, hanno il permesso di stanziarvicisi.
Dal 2013 ad oggi, dicono le fonti australiane, nessun migrante avrebbe perso la vita in mare.

L’Unione Europea ha però rigettato più volte la possibilità di applicare questo modello, soprattutto per via del «Principio di non-refoulement», una norma del diritto internazionale che vieta il rimpatrio dei richiedenti asilo, anche se, proprio durante l’ultimo Consiglio Europeo del 28 giugno scorso, l’idea generale parrebbe essere cambiata.
Si è chiesto infatti a Consiglio e Commissione di valutare se sussistano le condizioni per costituire piattaforme regionali di sbarco, in stretta cooperazione con i paesi terzi, con l’Unhcr e l’Oim. Queste piattaforme dovrebbero distinguere i singoli casi (tra rifugiati e migranti economici) nel pieno rispetto del diritto internazionale e senza creare fattori di incentivo all’immigrazione.
La linea sembra tracciata, anche se il problema di come convincere i paesi terzi rimane. Valanghe di soldi comunitari e aiuti economici potrebbero essere la soluzione, anche se, per ora, Libia, Albania e Tunisia avrebbero detto no e l’unica posizione flessibile parrebbe quella egiziana.