Bergamo, la Codogno bis per cui si è agito troppo tardi

Da quando in Italia si sono iniziati a registrare i primi casi di coronavirus, a Bergamo il numero di contagiati, così come quello dei morti, che si aggira intorno ai 50 al giorno, non ha mai smesso di crescere. Le strutture ospedaliere, l’Ospedale Papa Giovanni XXIII in particolare, sostengono oramai a stento i ritmi che questa dannata pandemia impone, le campane delle chiese risuonano a morto ogni mezz’ora a segnare l’ennesima vittima, l’ennesimo famigliare, amico e concittadino che non ce l’ha fatta. Nel giro di pochi giorni la provincia bergamasca si è così trasformata in una Codogno bis, seppur con una sostanziale differenza. Se infatti per il comune lodigiano sono bastati i primi segnali di una crescita esponenziale nei contagi a dichiarare la zona rossa già a fine febbraio, a Bergamo le misure restrittive sono arrivate a scoppio ritardato, con soli pochi giorni di anticipo rispetto al resto del Paese e quando ormai, forse, era troppo tardi per contenere gli effetti di una diffusione capillare del virus. 

Sulla mancata decisione di chiudere la provincia e fermare, almeno parzialmente, l’attività produttiva delle imprese, come è stato ad esempio deliberato nei giorni scorsi per il comune di Medicina in Emilia Romagna, il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana è stato chiaro: «Non sono un tecnico, sono scelte che devono essere fatte da medici e infettivologi ed epidemiologi. Il comitato scientifico potrà prendere decisioni di questo genere, io non posso che accettare quello che decidono loro». Insomma, dopo l’allarmismo dei primi giorni, quelli in cui Fontana non aveva esitato a mostrarsi in diretta Facebook con il viso coperto da una mascherina, la situazione, almeno dal punto di vista del presidente, sembra essere cambiata.  Così, si discorsi di quel primo periodo, in cui la retorica di Fontana era dominata da termini quali «battaglia» e «combattere» ed egli stesso si presentava come colui che avrebbe salvato i lombardi dall’inarrestabile virus, si sono sostituite oggi le espressioni di circostanza e ben poco di concreto sul fronte pratico. 

In una situazione oramai al limite, quale è quella che interessa la zona della bergamasca, Fontana sembra continuare a divertirsi nel ruolo di bastian contrario nei confronti del governo, incapace al tempo stesso di assumersi le proprie responsabilità istituzionali e di mantenere un atteggiamento se non affidabile, quanto meno credibile, di fronte all’attuale emergenza. Sia ben chiaro che, considerata la straordinarietà della situazione e il detto popolare per cui nessuno nasce imparato, un certo margine di incertezza e di errore lo si sarebbe potuto perdonare anche a lui, così come in fin dei conti si è fatto con diversi sindaci lombardi quando ancora invitavano i cittadini ad animare le proprie città. Quello che dunque stona nel comportamento adottato pubblicamente da Fontana è l’inadeguatezza e irresponsabilità che egli dimostra ogni qualvolta sia chiamato ad adempiere ai propri compiti istituzionali. 

Da quel lontano 10 marzo, giorno in cui l’Italia intera andava in letargo, o forse anche prima, Bergamo si è trasformata in uno scenario di guerra e in fin dei conti poco importa ora identificare un colpevole, convincersi che sarebbe potuta andare diversamente se si fosse agito prima e con più fermezza. Bergamo oggi resiste, mola mìa, come si dice in dialetto, ed è questo ciò che conta. Un ultimo appello alla mia città: quando tutto questa sofferenza sarà passata e sarà iniziata la primavera, ricordiamoci di chi davvero ci ha tenuto in piedi.