Il braccio galleggiante e l’«astronave» che ripuliscono i mari

La tecnologia negli ultimi ani sta facendo passi da gigante. Sebbene il settore in cui questa evoluzione si nota di più è, per forza di cose, l’elettronica, che incontriamo nella vita di tutti i giorni, ci sono molti altri settori meno spendibili dal punto di vista commerciale che hanno risentito positivamente di questa spinta innovativa.

Uno di questi è, senza dubbio, quello dei rifiuti; in particolare quelli nel mare e negli oceani.  Secondo gli ultimi studi del WWF, dal 1954 ad oggi la quantità di plastica prodotta è passata da 15 milioni di tonnellate a 310 milioni; tutt’oggi si calcola una quantità totale in mare di 150 milioni di tonnellate, con allo stesso tempo 8 milioni che ci finiscono ogni anno. Nell’oceano Pacifico si è formata addirittura una vera e propria isola di plastica, dalle dimensioni spaventose: 1,6 milioni di chilometri quadrati, con una superficie pari a 3 volte quella della Francia. Molte sono le idee sviluppate negli ultimi anni per provare a risolvere il problema, da ingegneri navigati a giovani che hanno avuto diversi colpi di genio.

Un primo esempio è portato da Boyan Slat, olandese, ora ventiquattrenne, che a 17 anni ha portato sul palco di TED (Technoly Enterneinement Design, festival annuale nato nella Silicon Valley che organizza conferenze su innovazione, tecnologia ma anche cultura) la sua proposta: una piattaforma che sfrutta le correnti e che aspetta che la plastica arrivi da sé. The Ocean Cleanup, nome del progetto, è diventato startup: in questo braccio galleggiante lungo un chilometro, con barriere collegate profonde 4 metri, l’alimentazione di energia necessaria avviene completamente sfruttando le fonti rinnovabili. Secondo i calcoli ogni piattaforma dovrebbe recuperare circa 6 container di plastica ogni giorno e con 24 piattaforme di questo tipo, sistemate in posti strategici, si potrebbe riuscire a ripulire un intero oceano. Per questo qualche mese fa la startup ha proceduto alla mappatura degli oceani e ora si aspettano i risultati del primo prototipo, per ottimizzare le soluzioni e ricavare dalle piattaforme il massimo dell’efficienza.

Un secondo progetto degno di nota arriva dall’architetto tedesco Marcella Hansch, che ha creato una no profit, la Pacific Garbage Cleaning, che si pone obiettivi maggiori oltre alla semplice raccolta. In un’untervista a SkyTG24, Hansh racconta la piattaforma che ha in mente: anche questa è mobile ma, a differenza di quella di Slat, sarà grande 400 metri, con un sistema che rallenta le correnti per far emergere la plastica a galla. Questa piattaforma, che assomiglia a un’astronave, effettua la raccolta e la lavorazione della plastica: la particelle saranno trasformate in idrogeno, fonte di energia per la struttura, e anidride carbonica, che diventerà cibo per alghe poi usate per la produzione di bioplastiche. Niente reti o barriere quindi, che la Hansh reputa negative per l’ecosistema.

Leggendo queste lodevoli storie salta all’occhio un particolare: la grande maggioranza di questi progetti sono sorti da iniziative private, che si sostengono affidandosi a campagne di raccolta fondi sul web. Per l’ennesima volta sembra che la politica globale non riesca a raggiungere accordi che vadano inequivocabilmente a favore dell’ambiente. L’entrata in scena di Trump, sotto questo profilo, non va a vantaggio del benessere dei mari e degli oceani; ma continuare a fare pressione per una presa di coscienza da parte di tutti è doveroso.