La cultura italiana è al servizio del Principe

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La cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse, e non poteva essere altrimenti, visto che il Principe era, in un Paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato, il suo unico committente. Mentre la Riforma aveva sgominato l’analfabetismo facendo obbligo ai suoi fedeli di leggere e d’interpretare i testi sacri senza la mediazione del Pastore autorizzato a dare solo qualche consiglio; la Controriforma, che faceva del prete l’unico autorizzato interprete delle Scritture, dell’analfabetismo era stata la fabbrica, che lasciava l’intellettuale alla mercé (in tutti i sensi) del suo patrono o protettore. Il quale naturalmente se ne faceva ripagare non solo con la piaggeria, ma anche con la difesa del sistema su cui si fondavano i suoi privilegi.
Così si formò quella cultura parassitaria e servile, che non è mai uscita dai suoi circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo a compiervi quell’opera missionaria, di cui le è sempre mancato non solo la vocazione, ma anche il linguaggio. In Italia il professionista della cultura parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la gente. E istintivamente cerca ancora un Principe di cui mettersi al servizio.
Scomparsi quelli di una volta, il loro posto è stato preso dai depositari del potere, cioè dai partiti. E questo spiega la così detta «organicità» dell’intellettuale italiano, sempre schierato dalla parte verso cui soffia il vento. Se è vero che l’ambizione di ogni intellettuale è di diventare il direttore della pubblica coscienza, l’intellettuale italiano la serve all’incontrario: mettendosene al rimorchio e facendo la mosca cocchiera di tutti i suoi eccessi e sbandate.

Indro Montanelli
Post scriptum all’ultimo volume della Storia d’Italia