Sono andata all’Expo: mica è tutto da buttare

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Il padiglione Italia

Alla fine di un suo (desisamente poco noto) libro dal titolo Bouvard e Pècuchet, Flaubert ha inserito un piccolo dizionario dei luoghi comuni, alla voce «Accademia Francese» c’è scritto: «disprezzarla, ma fare di tutto per entrarvi». Lo stesso si potrebbe dire dell’Expo: disprezzarlo e poi andarci.
Personalmente non l’ho mai disprezzato, nonostante non possa chiudere gli occhi davanti ai problemi che ci sono stati. Ci sono stata martedì (per la cronaca 20 euro io e accompagnatore gratis) e non mi è sembrato di vedere ruspe (neanche quella di Salvini). Premesso questo vi dico cosa si prova, non da giornalista ma da semplice visitatrice. Entri, è enorme, si vede il famoso Albero della Vita, sembra di stare a Gardaland. E c’è da camminare, molto, a quanto vedo. Alla fine i piedi degli altri fanno male e le mie gomme non ce la fanno più. Ho visto 14 padiglioni, mi girava la testa, troppi stimoli, troppe meraviglie contemporaneamente. Di questi quattordici paesi, soprattutto il Giappone m’è rimasto impresso. «Sono cinquanta minuti d’attesa», dice una signorina asiatica coi vestiti tradizionali, poi mi guarda e mi accompagna nella corsia preferenziale. Niente code per me, è così ovunque, scopro, ma nessuno ti segue come nel padiglione giapponese. Poi entri, in una dimensione di sogno, non sai più distinguere le persone vere da quelle riflesse negli specchi, è tutto nero, bianco e oro, poi ti mostrano tutti i loro prodotti tipici e anche gli ami da pesca e quei coltellacci che usano nei loro ristoranti e poi tutte le loro scoperte nel campo della nutrizione. Infine ti fanno sedere in un ristorante virtuale, dove fare le ordinazioni virtuali e ti obbligano a fare amicizia col vicino (il mio vicino era mio padre); alla fine cantano e tu pensi che sono proprio suonati.
 Di tutti gli altri padiglioni ho dei ricordi vaghi, come se fosse passata una vita. Quello italiano ovviamente è spettacolare (ce ne è addirittura uno per ogni regione), la cosa più strana è un enorme planisfero dell’Europa, ma senza Italia. Non nel senso che c’era l’Italia fuori dall’Unione Europea, nel senso che proprio non c’era. Quel punto del Mar Mediterraneo faceva impressione davvero e sotto delle voci illustravano alcune testimonianze di gente importante che ha l’Italia come punto di riferimento, almeno a livello gastronomico.
E poi gli Stati Uniti (un po’ deludenti, nonostante Obama parlante), la Thailandia, la Colombia (
con un padiglione fortissimo e affollatissimo) , il Marocco, ilVietnam, la Corea, tutti vicini, come se veramente i confini fossero una cosa insignificante. Immaginate cosa potesse significare per me che non sono mai uscita dal vecchio Continente.
Eppure per prima cosa ho mangiato salame e vino italiani (un po’ come quello che su Google Maps cerca casa propria). Avevo creduto ciecamente alla storia dei prezzi troppo alti, dunque avevo arraffato quanti più assaggini gratis possibili, ma anche lì il caso secondo me è stato fin troppo montato. Molti posti erano cari, altri meno. Bisogna tenere conto che è una fiera sul cibo, quindi si spenderà in cibo e poi una volta sola, mica tutti i giorni. Considerate che il giorno prima avevo mangiato due panini tristi. I cannoli siciliani enormi costano tre euro, se vi interessa. Se potete evitate Cina e Russia che non val la pena e, invece, entrate nell’alveare di acciaio
della Gran Bretagna. Mi sembrava di essere un’ape e mi sono ritrovata spaventata da me stessa.
Questo è il breve resoconto della mia avventura. Ribadisco che sarebbe sbagliato e poco professionale da parte mia dimenticare i problemi che ancora oscurano questa manifestazione, e le sue contraddizioni. Ma alla fine le luci sono più delle ombre. È un incontro di culture che non so se avrò l’occasione di rivedere, mi ha lasciato confusa e meravigliata.