Expo: il mio viaggio alla fiera del cibo

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Expo sì, Expo no, citando un articolo di Alex Corlazzoli sul Fatto.it. L’intera comunità mondiale – ma soprattutto italiana, nel corso di questi mesi, si è spaccata a metà: c’è chi decanta le lodi dell’Expo in maniera entusiasta, e chi invece lo boccia (anche a prescindere). Queste opinioni così contrastanti mi hanno fatto nascere sempre una maggiore curiosità per questo evento. Così all’alba del 15 settembre, io e i miei amici ci siamo messi in marcia, consapevoli delle notizie catastrofiche che erano circolate nei giorni precedenti sui tempi di entrata all’Expo stesso e ai vari padiglioni.

L'interno del Padiglione russo
L’interno del Padiglione russo


C’è da dire sicuramente una cosa: chi si mette in testa l’idea di andare a visitare Expo deve essere consapevole del fatto che non potrà mai vedere tutta l’esposizione. Per visitare ogni padiglione e stand ci vorrebbero almeno 5 giorni intensi, se non siete supportati da un amico maniaco del controllo e abile in strategie più di una settimana.
Una volta arrivati a Rho-Fiera, le cose vanno alla grande: alle 10, dopo nemmeno dieci minuti di fila siamo già dentro e dopo poco ancora in fila per vedere il padiglione della Russia.
Molto scenico: giochi di luce, distillatori, ma anche spazio per la scienza e per le scoperte, in campo alimentare e no, e per scienziati, che forse con la tavola periodica non avevano ancora fatto pace (ordine degli elementi e stati di ossidazione non erano esattamente corretti). Oltre la prima sala c’è un bancone con cibo tipico e naturalmente finto; più avanti ci si trova catapultati nell’immancabile bar, con annesso shop, zeppo di alimenti tipici, presente in tutti i padiglioni e che la maggior parte delle volte di alimentare non ha proprio nulla. L’ultima tappa russa prevede un percorso su una terrazza con giardino che probabilmente ha l’intento di dare un’idea del panorama.
Dall’alto le cose sono completamente diverse: i padiglioni hanno le forme più fantasiose e svariate. Alcuni riflettono sicuramente lo «spirito» della nazione che rappresentano, altri forse tendono semplicemente ad essere scenici (e anche un po’ incomprensibili).
Senza la degustazione di vodka tanto attesa e con un lecca-lecca russo in mano il nuovo obiettivo è l’Estonia; la pioggia, però,  rovina i nostri piani e così siamo costretti a rifugiarci dove capita: alla ricerca di un padiglione un po’ sfigato senza fila, ci ritroviamo in Oman.
Da fuori il padiglione sembra sicuramente invitante, una piccola località turistica, e, devo ammettere, che anche dentro non delude le aspettative, anzi. A parte le gigantesche api un po’ inquietanti sulle pareti, all’interno il padiglione appare ben fatto: viene mostrato su cosa verte l’economia del Paese (naturalmente il miele) e cosa si vorrebbe 12185050_1024947730860245_3453567308906101991_ofare tra pochi anni: ripopolare i mari, pescare responsabilmente e utilizzare nuove tecniche agricole. Questi progetti sono anche accompagnati da visioni suggestive: petali di rosa (fiore molto coltivato in quel paese) che vorticano in dei contenitori, riproduzioni della barriera corallina.
Fuori dal padiglione il diluvio universale. Carichi di ombrelli, sciarpe, una buona dose di coraggio, qualche parolaccia, ci siamo fatti spazio tra le persone per tentare di trovare un posto che almeno sembrasse asciutto: una volta trovato rifugio siamo afflitti da un dubbio amletico: dove andare? A qualche simpaticone viene la fantastica idea di proporre il Giappone: «Tanto con questo freddo chi vuoi sia rimasto in coda?». Proviamo allora a gettare uno sguardo verso quel padiglione che ormai è diventato un mito e l’emblema dell’attesa per antonomasia, ma è tutto inutile: gli imperterriti amanti dell’affascinante isola orientale sono ancora lì. Intanto, delusi, abbiamo ripreso a camminare e notiamo che l’Iran ha solo mezz’ora di fila: tempo più che accettabile. La ragione è evidente a posteriori: si tratta solamente di una camminata in mezzo a piante tipiche, con vasi tradizionali disseminati in qua e in là, molto belli ma che con il cibo hanno ben poco a che fare. Il bar iraniano ci ha sicuramente lasciati soddisfatti molto più che l’esposizione stessa: abbiamo bevuto tè caldo e mangiato dolcetti, con un discreto sforzo del portafoglio (i prezzi non sono tanto abbordabili).
Usciti, abbiamo deciso di continuare sulla via islamica e siamo approdati in Qatar. Appena entrati, ci conducono attorno ad una tipica tavolata qatariota. Interessante vedere come accanto al cibo locale si trovino anche molti dei nostri alimenti. In questa manifestazione ogni padiglione dovrebbe esporre pietanze tipiche del proprio paese, ma oggi è altrettanto tipica l’esportazione, prodotto della globalizzazione. La seconda parte del percorso prevede un’esposizione di progetti sull’ecosostenibilità delle industrie e un riferimento all’eccellenza delle aziende di imballaggio, perché il Qatar nutre il pianeta a suon di pacchi. Per uscire dal padiglione si deve fare un percorso nel buio lungo una discesa a chiocciola attorno ad un albero della vita illuminato (riproduzione discutibile del simbolo di Expo). Usciti dal padiglione si arriva a dei ritagli di edificio che riproducono stanze di botteghe e case qatariote; naturalmente c’è anche l’immancabile tatuatore di henné che 12186410_1024948257526859_1849261588333747966_osi preoccupa di spennellare solo ragazze (la fila per i tatuaggi può competere con quella analoga del Giappone). Ci fermiamo lì per pranzo, pur avendo molto timore dei costi, date le dicerie: l’ordine di polpette d’avena allo yogurt e alla salsa di menta con insalata l’ho ingurgitato con meno di dieci euro, per i più voraci riso con pollo e pesce spada (porzioni abbondanti) sono serviti a soli 5€ in più. Dopo pranzo è toccato al Kuwait, che da fuori sembra rispecchiare più che altro la pubblicità della nota marca di carburante e ci ha costretto alla fila più lunga di tutta la giornata (un’ora); ma ne è valsa la pena. Appena entrati, una cascata d’acqua ti saluta allegramente in molte lingue, all’interno viene proiettato un video in una grotta artificiale che mostra il paesaggio e la fauna tipica, mentre il secondo video proiettato è abbastanza inutile (un cielo stellato e nulla più). L’ultima parte è più generica: mostra semplicemente vestiario tipico e vi erano alcuni giochi interattivi (la gara dei dromedari è sicuramente la più stimolante). Gli alimenti sono relegati ad una misera tappa intermedia del percorso.
Successivamente all’ingresso del padiglione della Slovenia delle simpatiche ragazze alte e bionde che attaccano al petto di tutti un cuore verde e adesivo con la scritta «I feel Slovenia». L’interno, forse meno esaltante e frizzante delle signorine, sottolinea l’elemento salino, di cui la regione è molto abbondante, e quello acquatico dalla proverbiale bontà, di cui il paese è ricco. Incomprensibile invece la scelta di mostrare l’evoluzione degli sci: il nesso con la cultura del cibo mi è poco chiaro. Dopo aver «sentito la Slovenia», i padiglioni italiani ci hanno fornito birra e qualche risata: il padiglione del Trentino e dell’Alto Adige erano rigorosamente separati, cosa che mi ha suscitato non poca ilarità. Dopo aver visto la fila a dir poco chilometrica, siamo passati al Messico. Anche loro ti attaccano al petto un adesivo utile, poi, in postazioni interattive molto intelligenti e ben pensate: si poteva scegliere cosa approfondire, dal settore culinario a quello medico. Alla fine del padiglione ci sono altri video su prodotti tipici e si possono annusare le spezie tipiche messicane.
12185372_1024949227526762_4977331239775554374_oDal Messico si va nella nazione dell’amour: la Francia. Nonostante le molte aspettative prima di entrare, dato il mio amore smodato per le crepes, sono rimasta alquanto delusa: ci sono svariati video (magari anche interessanti), l’unico problema è la troppa gente accalcata di fronte e il troppo poco tempo per soffermarsi, sarebbe stata migliore una soluzione più incisiva e di impatto. Presenti anche elementi che hanno poco a che fare con la tematica del cibo come ad esempio racchette da tennis, che non credo si possano addentare come una baguette.
Dopo la Francia ci siamo avviati verso lo spettacolo delle 8 e mezza dell’albero della vita e questo, non posso negare, mi ha lasciata con il fiato sospeso. Di giorno questa costruzione, soprattutto se è una giornata grigia, non suscita nulla di che: riesce a mettere tristezza, sembrando solo uno scheletro elettrico. Di notte è un’altra storia. Con il buio le luci si accendono, la musica parte e l’acqua inizia a danzare a ritmo. Un ballo colorato, spettacolare, allegro: pieno di vita, ha realizzato concretamente quella che è la mia idea di nascita. L’acqua che danza allegramente, in certi momenti concitata fino alla febbrilità, il tutto accompagnato da musica solenne (come ogni momento epico che si rispetti): questo è l’albero della vita. Questa è la vita stessa.
La toccata e fuga ad Expo, posso chiaramente affermare, mi ha soddisfatta. Questa visione positiva dell’evento è possibile, però, solo se prima di partire si adotta il giusto punto di vista, il più ragionevole. Ci sono state molte polemiche, ma bisogna ricordarsi che è un’esposizione universale e, dopo la mia esperienza, posso dire un’esposizione del cibo, non della biodiversità e della sostenibilità ambientale. Le nazioni hanno fatto di tutto per mettersi in mostra e per cercare di presentare il loro paese come un paese forte, avanzato, dotato di molti pregi e nessun difetto. Per quanto triste possa essere pensare alla vanità di tutto questo, bisogna ricordarsi che Expo è un incontro tra nazioni che, anche per questioni di immagine, non esibiranno mai, volontariamente, i loro punti deboli. Expo è un trampolino di lancio per farsi conoscere quindi sarebbe abbastanza controproducente far vedere ciò che non funziona per invogliare il turismo.

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Expo non è una conferenza: è un’esposizione. Questo implica che al suo interno non si troveranno solo video educativi ma anche divertimenti, stratagemmi per attirare più persone possibili: l’obiettivo è, da sempre, da quando l’evento è stato creato ormai tanti e tanti anni fa, anche il marketing.
Expo non è un evento benefico. Il costo del biglietto serve per ripagare tutta la macchina che ha lavorato dietro alle attrazioni; certo l’ingresso intero è un po’ salato ma i modi per risparmiare ci sono.
Resta un ultimo punto che vorrei toccare: perché andare a visitare Expo. Tenendo presente quanto detto sopra, mi sembra un’ottima e unica occasione per potersi rapportare a culture che altrimenti potrebbero rimanerci assolutamente oscure. Ci approcciamo ad esse attraverso un filtro: vediamo quello che la determinata nazione vuole che noi vediamo; ma è anche vero che, solitamente, è molto difficile approcciarsi ad una cultura straniera senza qualche filtro o qualche sorta di pregiudizio. Quindi prendiamo l’evento come quello che è: un momento in cui si può incontrare un nuovo e un diverso che difficilmente nella vita capita di incontrare. Magari non rispecchia proprio la riflessione che volevamo e che serve, al giorno d’oggi sull’ambiente, ma è anche vero che dobbiamo tenere conto del target di persone a cui Expo si rivolge, il più ampio che si possa immaginare: il mondo. Sarebbe stato difficile, forse quasi impossibile, trattare un tema così importante e delicato in un linguaggio comprensibile da un giapponese, un macedone, un messicano, un italiano, da un bambino, da un vecchio, da un adolescente. Forse Expo, partito con intento riflessivo è diventato per lo più una fiera, ma a mio avviso non poteva essere altrimenti. È praticamente impossibile trovare un linguaggio che riesca a comunicare con tutti e che interessi tutti.
È vero ci sono dei punti deboli, è vero ci è stato venduto un prodotto diverso, anche molto, perché non c’è accenno (se non in qualche raro caso) alla biodiversità e all’ecosostenibilità; è vero, avrebbe dovuto essere più educativo e in certi punti organizzato meglio, ma è sempre un modo per conoscere un assaggio di luoghi che forse non vedremo mai. Un’occasione unica per mangiare un po’ di Polonia, Qatar, Kuwait.